La caduta di Di Maio, da capo politico dei Cinque Stelle a primo problema del Movimento

Per un movimento politico che ha fatto sua la battaglia per l’onestà vedere un Di Maio che traffica con gli "a mia insaputa” (come Scajola), è un segnale.Di Maio, ormai è la pietra d’inciampo dei Pentastellati

In principio fu “onestà, onestà, onestà”. Ogni due per tre i cinquestelle issavano la bandiera dell’antipolitica e uscendo da palazzo Montecitorio urlavano e ripetevano tre paroline che messe in fila avrebbero imbufalito chiunque: «Onestà, onestà, onestà». Nella scorsa legislatura quando le truppe di Grillo sedevano ai banchi dell’opposizione e si ergevano a paladini della questione morale, non c’era giorno che non aveva la sua pena.

E la pena si traduceva in un bersaglio da colpire, da mettere alla gogna, da denunciare manco fosse l’obiettivo di turno già colpevole per associazione a delinquere di stampo mafioso. Non a caso ancora oggi i commessi parlamentari ricordano le gesta di Di Maio&Co in occasione del «banale» abuso edilizio che costrinse Josefa Idem, ministro del governo Letta, a lasciare il dicastero per opportunità. Per non parlare della reazione a quel Rolex regalato al figlio che decretò la fine dell’esperienza di Maurizio Lupi al ministero delle Infrastrutture.

Così dietro quello difesa debole e inefficace si cela un certo provincialismo tutto italiano che quando indossa la grisaglia dell’uomo di governo prova a dissimulare, a scaricare le colpe sul padre

Tutti indegni di sedere nei banchi dell’esecutivo. Tutti già processati prima ancora del primo, del secondo e del terzo grado. E allora fu sempre «onestà, onestà, onestà» – tatatà scherza un commesso – a rendere i pentastellati e il suo capo politico “Luigino” più puri dei puri. Perché, intimava agli avversari, «per me ai politici non va applicata la presunzione di innocente». E ora come finirà? E ora che «Gigino» è scivolato sull’azienducola del padre che siglava contratti, si fa per dire, in nero, si concluderà l’esperienza politica di Gigino?

In fondo, trattasi della più classica delle storie italiane. Una famiglia di provincia del Mezzogiorno scivola in episodi più che sospetti di correttezza fiscale ed etica. E ogni giorno esce qualcosa che arricchisce il giallo e che rende più fragile, il già fragile Di Maio. Ma «Gigino» non ci sta, prova a difendersi davanti alle telecamere. «Io non c’entro nulla», sbotta manco fosse un “Vasa Vasa” degli anni d’oro. Così dietro la difesa debole e inefficace si cela un certo provincialismo tutto italiano che quando indossa la grisaglia dell’uomo di governo prova a dissimulare, a scaricare le colpe su quel padre che di nome fa Antonio e che lui, Giggino, non sente «da mesi». Sembra quasi di risentire nella stagione del “cambiamento” il «a mia insaputa» cui si è servito l’ex ministro Claudio Scajola per difendersi dal «mezzanino» al Collosseo.

A questo punto i casi sono due: o i Cinque Stelle non sono fatti per Di Maio, o Di Maio non è fatto per i Cinque Stelle. Da leader (o co-leader, le geometrie del potere pentastellate sono indecifrabili) a pietra d’inciampo il passo è breve

Ma il destino è beffardo. Vale per gli azzurri, per i democratici. E adesso, ahinoi, anche per i gialli che un tempo urlavano, e ancora urlavano tre volte la parola «onestà». E oggi si ritrovano con Di Maio che fa da prestanome al padre per salvare la ditta da Equitalia. E non basta che ieri il padre di “Giggino” si sia scusato degli errori che ritiene solo suoi e non del figlio vicepremier.

Di Maio farebbe cosa sana e giusta se dicesse a gran voce di non aver retto alla prova dell’onestà. Perché tutta questa storia è una contraddizione piena con tutti i principi del Movimento, e a questo punto i casi sono due: o i Cinque Stelle non sono fatti per Di Maio, o Di Maio non è fatto per i Cinque Stelle. Da leader (o co-leader, le geometrie del potere pentastellate sono da sempre ambigue) a pietra d’inciampo il passo è breve.

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