Chi spera che gli scheletri nell’armadio di casa Di Maio segnino la rovina del M5S e il riflusso dell’elettorato italiano dalla seduzione antipolitica commette lo stesso errore di chi, pochi anni fa, pensava che il sovversivismo d’ordine della Lega non sarebbe sopravvissuto ai capricci del vecchio Senatur, alle lauree comprate per il Trota e all’uso del denaro pubblico dei forzieri di via Bellerio come argent de poche della famiglia Bossi. Questi incidenti possono essere letali forse per la vittima, ma sul lungo periodo. Comunque Bossi è ancora lì, per quanto malconcio, e mai toccato dal Capitano, che si è ben guardato dal chiedergli i danni in tribunale. E anche Di Maio continuerà a comandare fino a che negli equilibri di potere del M5S non ci sarà qualcuno più forte di lui e quindi in grado anche di usare le questioni di famiglia, come alibi e pretesto, ma non certo come ragione del ribaltone interno.
In ogni caso, in Italia gli scandali non sotterrano i partiti inclini allo scandalismo politico e al manipulistismo ideologico; al contrario in certo modo li nutrono. Sono concime, non veleno. Il frame imposto da Tangentopoli in poi al discorso pubblico, con la trasformazione della dialettica democratica in un eterno Processo al Palazzo e ai suoi abitanti, non entra in crisi, ma trova paradossale conferma dalla scoperta che un “buono” potrebbe essere “cattivo” e un “onesto” diventare “disonesto”, perché come direbbe il sommo sacerdote dell’ordalia permanente, Piercamillo Davigo, “non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti”.
Il moralismo, il giustizialismo, la retorica da tagliagole contro i ladri, i parassiti, i grassatori è semplicemente un copione della commedia del potere. Non c’entra né con la morale, nè con la giustizia, come l’Inquisizione, oltre a non c’entrare nulla con la giustizia, non c’entrava nulla con la fede religiosa. I partiti che promettono di fare piazza pulita di tutti gli scandali ne sono semplicemente i protagonisti. L’illusione di inchiodare di Maio alle responsabilità del padre ha qualcosa di patetico: è un vero delirio di impotenza da parte di chi, essendo stato schiantato dalla tempesta populista, pensa di ritorcere il vento in direzione uguale e contraria per ripristinare la quiete. Usare la “ghigliottina” contro i boia non segna però la sconfitta dei boia, bensì il trionfo della ghigliottina.
Se l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, il moralismo sui condoni e sul “nero” di famiglia è il paradossale riconoscimento reso dalle vittime ai carnefici a 5 stelle e alla loro ideologia totalitaria, che ha trasformato la politica in un’orgia di scontrini, di accuse, di prove tarocche e di professioni ancora più tarocche di pulizia. Per usare parole grosse, si potrebbe dire che il gossip su papà è il tributo all’egemonia culturale di Giggino Di Maio e del suo partito-caserma.
L’illusione di inchiodare di Maio alle responsabilità del padre ha qualcosa di patetico. Usare la “ghigliottina” contro i boia non segna però la sconfitta dei boia, bensì il trionfo della ghigliottina
Questa è la ragione per cui la stampa e la politica democratica non dovrebbero correre appresso ai dossieraggi delle Iene, ai regolamenti di conti e alle mille questioni private nascoste dietro gli affari e i quattrini o al giornalismo cosiddetto di inchiesta, fatto collazionando veline fiscali, urbanistiche o giudiziarie. La morale individuale e collettiva, in queste vicende, non c’entra nulla. C’entra qualcosa di molto più profondo e vitale, cioè la perversione culturale e istituzionale dei processi politici e la tribalizzazione dei rapporti sociali.
Solo nei Paesi totalitari o autoritari gli avversari sono sempre ladri, traditori, imbroglioni. Solo in questi paesi la liberazione dal male politico, nella retorica del potere, passa dalla pena e dalla galera per i “nemici del popolo”. La democrazia italiana e molte altre democrazie occidentali – ma quella italiana in modo più profondo nelle cause e cronico negli effetti – sono ormai entrate in uno schema da lotte di regime, non più da confronto democratico. Per emanciparsi dall’antipolitica, bisogna uscire da questo frame.
Finché l’Italia se ne starà accomodata nella logica per cui le cose vanno male per colpa di “qualcuno”, non occorre domandarsi quanto ciascuno abbia avuto parte – con le proprie scelte di governo e di voto – di quel “qualcuno” collettivo che è in fondo l’Italia
Il moralismo, peraltro, non è solo una forma di trasformismo del potere, ma in primo luogo del popolo. È una schema in cui la morale double face degli elettori e degli eletti può trovare vie di fuga, giustificazioni e accomodamenti e un costante rispecchiamento. La cosiddetta “onestà” è insomma la forma più comoda di autocoscienza che la politica italiana sente di potersi permettere, l’unica che non mette in crisi abitudini e tradizioni e che non obbliga a fare i conti con “colpe” politiche molto più problematiche e imbarazzanti. Finché l’Italia se ne starà accomodata nella logica per cui le cose vanno male per colpa di “qualcuno” – e di un qualcuno che va scoperto, condannato e maledetto – non occorre domandarsi quanto ciascuno abbia avuto parte – con le proprie scelte di governo e di voto – di quel “qualcuno” collettivo che è in fondo l’Italia. I populisti al potere prosperano su questa rimozione e su questa antropologia politica negativa che consente, a seconda delle circostanze, di condannare o assolvere tutti – perchè “sono tutti uguali” – e di non cambiare nulla.
Questa è la ragione per cui lo scandalo dei milioni che la Lega non restituirà mai all’erario non hanno fatto un baffo a Salvini. Ed è anche la ragione per cui i mea culpa sempre più accorati di Di Maio padre non sposteranno di una virgola i consensi per il partito di Di Maio figlio, che soddisfa una domanda politica che è di tutto – rassicurazione, vendetta, privilegio… – ma certo non di onestà-senza-virgolette.