Governo del popoloE poi la chiamano democrazia: il Governo gialloverde ha fatto fuori il Parlamento

Finora solo due leggi approvate con l’iter “normale”. Il Governo del popolo va avanti a copi di decreti. Deputati e senatori si sono trasformati in “schiaccia-bottoni”. E tra i banchi grillini serpeggia il malcontento

«In un contesto in cui il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo continua ad essere caratterizzato dall’abuso di strumenti che dovrebbero essere residuali, dobbiamo impegnarci a difendere il Parlamento da chi cerca di influenzare i tempi e le scelte a proprio vantaggio». Sono le ore 13 del 24 marzo del 2018 quando Roberto Fico prende per la prima volta la parola da presidente della Camera. In un discorso di circa 15 minuti il neo inquilino di palazzo Montecitorio invoca il ritorno della «centralità» del Parlamento. ​Non appena scolpisce quelle parole dai banchi del movimento si leva un applauso che arriva fino in Transatlantico. Da oggi si volta pagina, non ci saranno più voti di fiducia, il Parlamento sarà «finalmente» eterodiretto dei cittadini, esultano prime, seconde e terze file del grillismo. La democrazia partecipata detterà l’agenda parlamentare.

Sembrava così ma in un lampo i cittadini del popolo si sono trasformati in «schiaccia bottoni». Il refrain non muta quando il tandem DiMaio-Salvini guidato dal «notaio» Giuseppe Conte prende possesso di palazzo Chigi e inizia a dettare i tempi del “Governo del cambiamento”. Eppure dall’inizio della legislatura si rintracciano due sole leggi di matrici parlamentare: una sulla Corte dei Conti, e un altro sui dispositivi nei veicoli per prevenire l’abbandono di bambini. Tutto qui.

Dall’inizio della legislatura si rintracciano due sole leggi di matrici parlamentare: una sulla Corte dei Conti, e un altro sui dispositivi nei veicoli per prevenire l’abbandono di bambini. Tutto qui

L’esecutivo a tinte gialloverde ha lasciato il campo soltato a leggi di stampo governative. Disegni di legge voluti fortemente da Salvini o da Di Maio, o tutt’al più conversioni di decreti di legge, caldeggiato dall’uno o dall’altro vicepremier. Ecco, il più delle volte i parlamentari si ritrovano davanti un provvedimento blindato da un voto di fiducia e di conseguenza immodificabile. Non possono fiatare, né tantomeno alzare il ditino e porre una questione. E allora che fine ha fatto la centralità del Parlamento? Si è persa per strada, verrebbe da dire. O, come conviene all’ultimo ventennio di cose legata al Palazzo, si è scontrata con la triste realtà. Eppure il punto più basso della democrazia parlamentare si sta registrando in queste ore. Oggetto: la manovra di bilancio, quella che un tempo si chiamava finanziaria.

Da settimane l’esecutivo si scontra con Bruxelles sul rapporto Deficit/Pil. E così dopo giorni di duelli all’ultima dichiarazione e di minacce di procedura di infrazione il governo Di Maio-Salvini cede alle richieste della commissione Europea. Tradotto, la la legge di bilancia dovrà rispettare le richieste che giungono dalla UE. Con una conseguenza: ieri mattina le commissioni del Senato avrebbero dovuto esaminare la legge di bilancio ma sono state sconvocate in attesa del maxiemendamento vergato a quattro mani da Palazzo Chigi e da Bruxelles.

Deputati e senatori della galassia pentastellata bivaccano per i corridoi dei palazzi alla ricerca della «centralità» di Montecitorio o di palazzo Madama

Così la manovra del popolo è finita nelle mani dell’odiata tecnocrazia. Uno scenario che stride fortemente con l’idea di cambiamento del movimento cinquestelle e con la passione per la democrazia partecipata. «Il Parlamento tornerà centrale», ripeteva Fico. Ma quando? Al momento non c’è traccia della parola partecipazione.

Deputati e senatori della galassia pentastellata bivaccano per i corridoi dei palazzi alla ricerca della «centralità» di Montecitorio o di palazzo Madama. Alcuni di loro allargano le braccia e sbottano: «Qual è il senso della nostra presenza qui in Parlamento?». Così saranno costretti a votare un provvedimento scritto da Moscovici e Juncker. E a prendere atto che il passaggio dalla democrazia partecipata alla democrazia tecnocratica è stato breve. Fin troppo.

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