6 Aprile 1994. È un mercoledì e le strade di Kigali, capitale del Rwanda, sono piene di terra rossa e ciottoli pungenti. Qualcuno, da un negozio, da una casa, o da un edificio poco distante il palazzo dell’allora Presidente Juvenal Habyarimana, capo radicale del fronte genocidiario HutuPower e delle milizie Interahamwe, accende la radio. Frequenza: Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM), la stazione nota per fare propaganda di odio contro il popolo dei Tutsi. «È arrivato il momento!» urla l’altoparlante «Tagliate gli alberi alti. Schiacciate quegli scarafaggi. Schiacciateli tutti quegli Inyezi!». “Il momento” è lo schianto di un missile terra-aria contro l’aereo Mystere Falcon del Presidente, con a bordo anche Cyprien Ntaryamira, del Burundi, entrambi Hutu. Gli “alberi alti”, gli “scarafaggi” ( o “Inyezi” nella lingua locale), sono gli appartenenti alla popolazione dei Tutsi. «Sono stati quegli scarafaggi!» gridano gli interahamwe per le strade «Hanno ucciso il nostro Presidente!». La moglie di Habyarimana, Agathe, a conoscenza dei fatti, viene immediatamente condotta in Francia. È l’inizio della carneficina, di uno dei genocidi più feroci della storia dell’umanità. Quello che Kofi Annan ha definito «un’onta per l’umanità».
A venticinque anni di distanza da quell’evento, nessuna indagine, nessun rapporto, nessuna verità storica ha mai confermato che fu il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), i ribelli Tutsi, a sferrare l’attacco contro Habyarimana. Certo è che al Governo Hutu serviva un escamotage, una scusa, per dare il via alle violenze e per bloccare gli accordi di pace che Habyarimana, sotto la lente accecante delle potenze occidentali, stava, con riluttanza, implementando. Le Nazioni Unite furono «colpevolmente incapaci» di fermare le violenze. Neanche la missione MINUAR, guidata dal canadese Romeo Dallaire, che da anni denunciava le violenze a danno dei Tutsi, potè nulla con il Consiglio di Sicurezza. Gli USA posero il veto sull’ uso del termine «genocidio» bloccando così i rinforzi al contingente di Caschi blu, il Belgio entrò nel Paese solo per evacuare i propri cittadini. Ma l’Eliseo fece di più. Non solo sostenne apertamente Habyarimana con l’invio di armi e addestrando le Forces Armées Rwandaises, complici del genocidio, ma mise in atto una delle operazioni più camuffate della storia: l’Operazione Turquoise.
Con la facciata di voler creare una “zona sicura”, al confine con lo Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo), per le migliaia di rifugiati che lasciavano il Paese, in realtà riarmarono le forze genocidiarie che poterono così continuare i massacri a danno dei Tutsi. In quella safe-zone, la Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM) aveva trovato la sua nuova casa, trasmettendo ondate propagandistiche di odio. In quella safe-zone i principali responsabili della mattanza riuscirono a fuggire. Un’operazione che per l’allora presidente francese Mitterand «salvò migliaia di vite umane» ma che in realtà non fece nulla per bloccare il genocidio. Nulla. Centinaia di documenti, telegrammi, note verbali dei diplomatici, una commissione d’inchiesta creata appositamente nel 1998, testimonianze di militari francesi, ruandesi, europei provano la complicità dell’Eliseo, eppure ad oggi, nonostante il riavvicinamento diffidente del Rwanda alla Francia, nessuna responsabilità è stata ammessa. La Francia non ha mai aiutato le indagini. L’unico passo fatto fu nel 2006, quando la Procura militare firmò una rogatoria internazionale al Rwanda per chiedere di fornire i documenti utili ad «identificare i reggimenti e servizi francesi presenti nel 1994». Quel plico, però, non fu mai stato spedito. Per dimenticanza, dicono.
«La Francia sa benissimo che le nefandezze compiute dal proprio governo durante il genocidio sarebbero state sotto gli occhi del mondo, per questo ha agito così»
Ottobre 2006, Parigi. Un altro mercoledì. L’ufficio del magistrato francese Jean-Louis Bruguière è affollato. Le famiglie dei piloti dell’areo abbattuto dodici anni prima attendono pazienti. E il magistrato, che per anni ha indagato, raccolto testimonianze e emesso nove mandati di arresto internazionali per i collaboratori più stretti dell’attuale presidente del Rwanda, Paul Kagame, capo del FPR, tira un sospiro di sollievo. L’atto di accusa è redatto. Finalmente, la Francia può scuotersi via di dosso anni di colpe. Secondo gli atti del magistrato, furono gli stessi Tutsi a lanciare il missile, condannando migliaia dei loro ad una morte certa, per avere quell’appoggio internazionale utile a prendersi il governo del Paese. Solo il giudizio sul ruolo di Paul Kagame, sempre secondo gli atti di Bruguière, dato che la legge francese assicura l’impunità ai capi di stato in carica, andrebbe rinviato davanti al tribunale internazionale di Arusha per i crimini in Rwanda. Tutti gli altri sono predisposti. Le istituzioni di Kigali leggono l’atto d’accusa, Paul Kagame non tarda a rispondere e rompe le relazioni diplomatiche con la Francia. Il Ministro degli Affari Esteri, Charles Murigande, afferma che «La Francia sa benissimo che le nefandezze compiute dal proprio governo durante il genocidio sarebbero state sotto gli occhi del mondo, per questo ha agito così». Un solo mandato d’arresto viene preso in considerazione e due anni dopo, Rose Kabuye, ex sindaca di Kigali e ex capo del Protocollo di Kagame, viene arrestata in Germania. Chiederà di essere estradata in Francia, per dimostrarne ancora più attivamente il coinvolgimento. Kabuye verrà liberata poco tempo dopo e nessun altro mandato d’arresto o atto d’accusa sarà preso in considerazione. Quella di Bruguière fu considerata l’ennesima violenza alla verità. Oltre che essere tutto quello che la Francia ha fatto per contribuire alle indagini.
All’interno del Parlamento di Kigali, al piano che ospita il Museo della Liberazione, la foto di un soldato francese, in divisa, che addestra le milizie Hutu, in abiti civili, ad usare il machete è una delle prime a comparire. Poco dopo fa capolino quella di Felicien Kabuga, ricchissimo uomo d’affari ruandese che il tribunale penale internazionale istituito per accertare le responsabilità del genocidio in Rwanda ritenne tra i principali colpevoli della mattanza in quanto primo finanziatore delle bande di miliziani che massacrarono la popolazione. La moglie di Habyarimana, Agathe, testimone diretta dei crimini del marito, risiede ancora in Francia. Tutti i politici e i militari coinvolti nel genocidio e macchiati di crimini contro l’umanità, sono tutt’oggi protetti dal governo francese.
“All’inizio del 1994 in Rwanda vivevano circa 7 milioni di persone.” scrive Daniele Scaglione in Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile (Ega Editore, Torino 2003) “New York nel 2001 contava circa 16 milioni di abitanti. L’11 settembre del 2001 l’attentato al World Trade Center ha causato la morte di 2893 persone. Dal 6 aprile al 19 luglio del 1994 è come se in Rwanda le Twin Towers fossero state abbattute tre volte al giorno. Tre volte al giorno, entrambe le torri distrutte, per 104 giorni di fila”. I calcoli sono semplici da fare: 10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto. Per un totale di 1.074.017, secondo le stime ufficiali diffuse dal governo rwandese. Incrociando i dati della Nazioni Unite, si scopre come le donne vittime di violenza sessuale durante il genocidio siano state circa 250.000, e le sopravvissute per il 70% dei casi hanno contratto l’AIDS. Tutto questo ha dato il via ad uno dei più grandi esodi di profughi della storia, considerando anche il breve lasso di tempo nel quale si è verificato: 2.000.000 di rwandesi hanno cercato rifugio nei paesi confinanti.
Di quegli anni, i media e i politici occidentali ne hanno conservati pochi ricordi. In periodo di elezioni europee, nessuna agenda politica di nessun paese reca un accenno alla necessità di trovare verità a quel male. Ognuno continua a raccontare una versione ridotta, rimaneggiata e riadattata dei fatti. E per Macron l’unica Africa è quella utile a parlare di espulsione di migranti dalla fortezza Francia e di accordi economici di scambio.