Camillo Langone: “Papa Francesco? Un blasfemo insensibile alla bellezza”

Intervista al primo (e unico) critico liturgico italiano che ha recensito più di 200 messe in tutta Italia: "Sono contrario all’esistenza dell’Islam. Non uso mai la parola migranti, che si può utilizzare per la migrazione delle rondini. Esistono gli invasori, che arrivino senza i mitra"

Quando cerco di indagare nel suo privato risponde con una citazione lapidaria di Francesco Bacone: “Chi ha moglie e figli ha dato ostaggi alla fortuna; perché essi sono impedimenti alle grandi imprese”. Eppure, nonostante la ritrosìa a parlare della sfera personale – e forse grazie all’ottima bottiglia di vino condivisa – l’intervista a Camillo Langone si è rivelata più “intima” di quanto mi aspettassi. Lo incontro nella sua casa all’ultimo piano di un bel palazzo del centro di Parma, città in cui vive «agli arresti domiciliari» a causa, sostiene, «delle concessioni selvagge del sindaco Pizzarotti» e mi accoglie in salotto dove campeggia l’olio su tela Uomo con tabarro, autoritratto che gli ha dedicato il pittore Giovanni Gasparro. «Sto finendo la “preghierina”, pochi minuti e iniziamo». Si riferisce alla Preghiera, rubrica su Il Foglio con la quale negli anni ha scatenato furiose polemiche, si è guadagnato schiere di detrattori (basta cliccare il suo nome online) e lo ha reso bersaglio di pesanti querele. Spedito lo scritto, ricompare con un annuncio: «A breve uscirà il mio libro sul vino, sono il massimo esperto al mondo di Lambrusco». Altra unicità, dopo aver inventato la figura del critico liturgico per aver recensito 200 funzioni in Guida alle messe. Ci spostiamo in cucina. «Come scrisse Montale: vissi al cinque per cento, non aumentate la dose. Anch’io mi freno, non si può parlare di niente senza rischiare una causa temeraria». Ma tra scaglie di Parmigiano Reggiano innaffiate da un Sorbara color rubino, Langone piano piano sembra infrangere questa regola. Parlando di Papa Francesco, che considera «blasfemo e la peggior espressione dell’evangelizzazione gesuitica» e su un possibile dialogo con i musulmani: «Sono contrario all’esistenza dell’Islam», o sul tema dell’immigrazione che, a suo dire, è «una invasione africana», passando per lo spauracchio vegani «che riducono la bellezza del mondo», senza contare la personale visione dell’emancipazione femminile che considerata «un abominio della desolazione». Hai letto il nuovo libro di Houellebecq? «No, però una volta ci siamo ubriacati insieme». Bene, possiamo cominciare.

Dopo aver peregrinato tra un buon numero di città ti sei stabilito a Parma. Una scelta di vita?
Ci sono nato, mentre ho abitato in altre città al seguito della mia famiglia. Però mi stanco presto, sono insofferente, infatti vorrei andarmene di nuovo. Sto ipotizzando a Reggio Emilia. Il mio esotismo è moderato, sono in movimento nel piccolo mondo della provincia italiana. Mi sembra di aver esaurito la fase parmigiana.

Come mai?
Ero innamorato di abitare in centro, ora non è più possibile. È aumentato il turismo, anzi è esploso, quindi non riesci a parcheggiare, a fare la spesa, non si dorme la notte per la movida. Voglio essere libero di non seguire mille regole. Ci sono orari in cui il taxi non mi porta a casa perché la gente non lo fa passare. Posso vivere agli arresti domiciliari perché il sindaco Federico Pizzarotti rilascia autorizzazioni a cani e porci?

L’amore fra te e il primo cittadino ex 5 Stelle non è mai sbocciato.
Lo incontro spesso, purtroppo. È un dispiacere della mia vita. Vorrei andarmene per non vederlo più. Per i danni che ha fatto alla mia vita personale, da ultimo mi ha rubato i cassonetti di casa per la raccolta differenziata. A Reggio ci sono ancora. Magari li toglieranno quando arriverò io.

Torniamo alla tua famiglia. Come mai tanti spostamenti?
Mio padre era militare, per questo eravamo costretti ai traslochi. Mio papà di Potenza e mia mamma di Casalmaggiore, in provincia di Cremona, ma con padre abruzzese. Lui è ancora vivo e abita a Udine, andare a trovarlo è scomodissimo. Almeno Reggio Emilia ha l’alta velocità. Ma perché parlare del privato?

Vorrei conoscere aspetti meno noti di Camillo Langone. Sei sposato, giusto?
“Chi ha moglie e figli ha dato ostaggi alla fortuna; perché essi sono impedimenti alle grandi imprese. (Francesco Bacone)”. Un pittore non può avere famiglia. Oppure averla e mangiarsela. Picasso, grandissimo artista, ha avuto prole numerosa, però è stato dannosissimo nei suoi confronti. Non si può essere grandi artisti e buoni genitori.

Per quale motivo?
Per esempio, seguo tutte le migliori pittrici e quelle davvero brave non hanno figli. È terribile da dire, ma è la realtà. O se spuntano dei bambini ci sono dei problemi. L’artista deve mettere l’arte al primo posto. Fine. È una questione tragica, assurda, ma è così. Se ha dei figli devi trattarli male, se li tratti bene vuol dire che tratti male l’arte.

Ti ci ritrovi in questa condizione?
Purtroppo sì. O forse non sono un grande scrittore per questo. Chissà. Per ora non riesco a scrivere un romanzo, perché bisogna essere ricco di famiglia e fregarsene di tutto. Completamente autistico, rinchiuderti. Io sono da pezzi brevi. Flaiano, per fare nomi, aveva questo problema. Come tutti noi e più di noi con il dramma del guadagno. Avendo una figlia disabile, non poteva permettersi il grande romanzo. Doveva arrangiarsi. Nonostante ciò ha prodotto cose immortali o comunque durevoli. Non mi lamento di non aver ancora pubblicato un romanzo, magari se lo scrivessi farebbe schifo.

Come hai iniziato per i giornali?
Dalla Gazzetta di Reggio, con articoli culturali, in epoca remotissima. Mi presentai dicendo: voglio scrivere. E mi fecero iniziare. Non mi sono mai iscritto all’Ordine dei giornalisti, perché non sopporto queste cose. Alla fine degli anni ’90 Marcello Veneziani mi chiamò a collaborare con Lo Stato, da lui diretto, e mi assegnò una rubrica. Nello stesso periodo cominciai con Il Giornale, dove c’era Caterina Soffici, con uno spazio sui ristoranti. Poi Il Foglio, dove mi portò Giuliano Ferrara contro la mia volontà.

Cosa non ti convinceva?
Sono anti romano e un po’ anti milanese, insomma anti metropolitano. Invece ho avuto uno spazio enorme. Adesso sono un orfano di Giuliano Ferrara, quando si dimise ci rimasi malissimo, non ci siamo più sentiti da allora. È stato un trauma. È finita una grande stagione. Mi ero disamorato del giornalismo, ma non solo io, il mondo. Chi fa il giornalista sempre più deve avere un altro lavoro.

Non vedi il giornalismo in buone condizioni.
I giornali chiudono. Stiamo tornando all’800, quando c’erano il conte Manzoni, il conte Leopardi. Mica ci guadagnavano. Il giornalismo è per chi se lo può permettere. O per i cortigiani. Nel mondo antico c’erano il conte e il cortigiano. Ariosto era conte, Guicciardini era governatore di Reggio Emilia. O per personaggi dilettanti, o per chi mette la propria penna al servizio del potente di turno. Bisogna prenderne atto.

Hai una formazione fortemente cattolica. Viene dalla tua famiglia?
No, i miei genitori non lo erano particolarmente. Sono cattolico io. Il punto fermo è la messa domenicale, la liturgia. Non faccio parte di movimenti o parrocchie. Anche se ho avuto negli anni ’90 una fascinazione verso Comunione e Liberazione, pur non facendone parte e adesso sono felice di non averlo fatto. I gruppi ti danno il calore umano, sono abbastanza necessari, purtroppo sono uno più sbagliato dell’altro. Non ho conosciuto la Cl di Giussani. I fondatori hanno carisma, lo spirito soffia in loro, ma Julián Carrón è un uomo totalmente privo di carisma. È un dramma. Cerco nei movimenti lo spirito, la presenza e oggi non la trovo.

Hai parlato di “evaporazione dei movimenti”.
Negli anni ’80 e ’90 erano importantissimi, sostenuti da Papa Giovanni Paolo II. Sembravano il futuro della Chiesa. Oggi non si sa cosa rappresentino. Cl era il movimento cattolico che univa Vangelo e cultura. Un intellettuale non poteva che stare lì. Non certo nei focolarini, con le donnine che parlano d’amore o con i neocatecumenali, che fanno 12 figli e abitano nelle borgate romane. Vanno benissimo, ma non è il mio mondo. Io frequento santuari, conventi e monasteri, tendo a evitare le parrocchie e il clero diocesano. Non voglio fare il profeta, ma i movimenti e le parrocchie si stanno svuotando, sempre peggio verso l’estinzione. Però credo nei miracoli.

Perché ha senso credere oggi?
Il fatto che non creda nessuno fa pensare che sia indispensabile credere. Nell’introduzione del prossimo libro cito Paul Valery: “Se pensi come la maggioranza, il tuo pensiero diventa superfluo”. C’è in me un certo compiacimento della minoranza. Solo che la mia minoranza è molto minoranza. Faccio parte di una minoranza della minoranza. Oggi essere cattolici vuol dire essere in minoranza. E la mia particolare vita cattolica è una minoranza nella minoranza. Infatti non sono in accordo con la maggioranza dei cattolici, per cui vivo una situazione difficilissima. E persino nel rapporto con i cattolici tradizionalisti. Non sono come loro. C’entro poco perché sono polimaniaco. Invece queste persone sono monomaniache. Io penso alla liturgia solo la domenica e a quell’ora, invece gli altri in ogni momento della loro vita. Sono nel campo dell’arte pura

Come l’aver scritto Guida alle messe?
Sì, ma per me è stata una esigenza. Essendo mobile, cioè sempre in giro per l’Italia, vado a messa tutte le domeniche, feste comandate, in chiese diverse. Quindi mi sono reso conto che sono tutte differenti l’una dall’altra. E così le ho censite, con l’aiuto di tanti amici. Era il periodo del Motu Proprio di Benedetto XVI, che teoricamente avrebbe liberalizzato la messa in latino. Un momento di speranza liturgica persa completamente, perché si scontrò col fatto che i vescovi odiano la messa in latino. Anche Papa Francesco la odia e non gliene frega niente, come tutti i gesuiti.

Da cosa deriva la tua avversione per l’operato di papa Francesco?
Incolpiamo Papa Francesco di essere Papa Francesco, invece bisognerebbe incolparlo di essere gesuita. Sono sempre stati il peggio del peggio, lo insegnava Pascal. Sono totalmente insensibili alla bellezza, alla musica, alla liturgia, da secoli e secoli. Prima Benedetto XVI incontrò l’opposizione totale dell’episcopato. Il Motu Proprio arrivò ai vescovi che lo buttarono nel cesso. Ratzinger non se lo filava nessuno, men che meno nella Chiesa.

Per quale motivo?
Perché il Papa conta pochissimo. Anche Papa Francesco, che è un uomo cattivo, tignoso, non è comunque riuscito a combinare nulla in Vaticano, cioè a pochi metri da dove dorme. C’è un contesto che non glielo permette. Ratzinger era mite, studioso, remoto da problemi pratici, quindi già partiva svantaggiato. Francesco, invece, nonostante sia manesco ha dimostrato che anche interessandosi di cose pratiche non viene a capo di nulla. Non è vero che non ci provino, non ci riescono. È molto grave. Ma io poi sono cattolico a prescindere dal Papa di turno.

Non c’è proprio nulla che ti piaccia in questo Papa?
Di uno che si dice tifoso di una squadra di calcio? Tifoso, quindi fazioso. È blasfemo, perché speri che gli avversari perdano. Un prete può dire una cosa del genere? Cattolico è sinonimo di universale. Se ci dividiamo in fazioni cosa fai, preghi per la mia sconfitta? Anche il cardinal Bertone andava allo stadio. Una cosa allucinante. Quindi gli altri sono figli di un Dio minore? Non si possono vedere queste cose.

Non oso immaginare cosa tu abbia pensato quando Papa Francesco si fece intervistare da Eugenio Scalfari su Repubblica scatenando la polemica sull’esistenza o meno dell’Inferno.
È stato un brutto momento per la cristianità, per il mondo oserei dire. È gesuitico e triste. Tipico dei gesuiti cercare un rapporto con persone senza speranza, tra le quali Eugenio Scalfari. Il mio amico e scrittore Roberto Dal Bosco ha ben spiegato che esiste questa pappa e ciccia tra Vaticano e comunisti perché in fondo è una vecchia storia gesuitica di evangelizzazione, che fu un fallimento totale. I gesuiti tendono a uniformarsi all’altro, al punto da diventare l’altro. Nel ‘600 andarono in Cina, come Papa Francesco va a Repubblica senza cavarne un ragno dal buco, anzi ricavandone altri buchi. I gesuiti imparavano il cinese, si vestivano da cinesi, mangiavano cinese e alla fine diventarono cinesi.

Rimanendo alla religione, qual è il tuo rapporto con i cittadini di fede musulmana?
Che cosa brutta. Cittadini mussulmani, sembra una contraddizione in termini. La considero un’invasione. Le parole sono importanti. Non uso mai la parola migranti, che si può utilizzare per la migrazione delle rondini. Esistono gli invasori, che arrivino senza i mitra. È l’invasione di uno spazio. Si può fare poco o niente, ma già chiamarla con il suo nome è importante.

Nessun dialogo è possibile?
Con i mussulmani non ho dialogo. Sono contrario al dialogo, in generale e nello specifico all’esistenza dell’Islam, ovunque. Certo, in Italia lo sento come tema più stringente. È una religione invadente e pericolosa. Questa invasione africana è un fattore di islamizzazione. Non tutti gli africani sono musulmani, ma essendo l’Islam una religione militare e militante, basta una minoranza consistente per determinare le sorti di una società. Le moschee, poi, sono avamposti. Non ha senso dire no alle moschee, se dici sì ai musulmani. Non ci vogliono né le une né gli altri.

Un tuo collega, Pietrangelo Buttafuoco, si è convertito all’Islam. Neanche con lui dialoghi più?
No, non c’è più sintonia con Pietrangelo, non voglio averla con lui. Da quando si è islamizzato è fondamentale capire che io non ho tolto l’amicizia a Buttafuoco, ma è lui ad averla tolta a Gesù. Quando lo conobbi il suo mi sembrava un fascismo nostalgico, brancatiano, siciliano, maschilista. Che bello, esteticamente mi piaceva. Pur senza essere io fascista. Ma il problema oggi è religioso, non politico. Dovrebbe essere lui a spiegarlo. Se diventi vegano non sei più mio amico, come se diventi mussulmano. Non sono fascista, ma non sono neanche democratico.

In che senso non sei democratico?
Non sono antidemocratico in modo militante, mi sento più neutrale. Mi infastidiscono le fazioni, Milan-Inter, comunisti-fascisti, partigiani-repubblichini, sono cose terribili. La posizione giusta è la neutralità. Non voglio mescolarmi con il voto. Se avessi votato avrei scelto Lega. Ma oggi sarei complice in quota parte della birra che beve Salvini. Io percepisco una vicinanza umana con Salvini, ma non sono un suo elettore. Non sono abbastanza democratico per esserlo. Ho votato Lega, Fratelli d’Italia o Forza Italia, però ora non voto nulla. Salvini beve troppa birra per i miei gusti. Ma Bossi era peggio, consumava pizza e Coca Cola. Questi pseudo padanisti mi avevano invitato e ho parlato a Pontida e loro intanto bevevano Coca Cola. Il livello dei leghisti è quello. Di fronte a ciò cosa vuoi dire? Sono un uomo perfetto e non posso mescolarmi con queste cose. Con Salvini potrei mangiare, a patto che sia io a ordinare da bere. Solo vino.

E se ti invitassero i 5 Stelle?
A loro sono totalmente avverso. Non intollerante come con i mussulmani, ma avverso. Però è sempre un fatto di persone. Toninelli dice idiozie e lo attacco su quelle. Non sono contro di loro perché quelli di prima erano meglio, ma perché bisogna essere sempre contro il potere se sei uno scrittore. Sono moderatamente contro a questo governo, ma ero ancor più contro a quello precedente. Un artista che appartiene a un governo non esiste. Sei dell’arte non del governo.

A cena potrebbe mai capitarti di essere a tavola con un vegano?
Sono un problema, come gli astemi. Sulle questioni di salute non mi esprimo. Ma gli astemi non sono così pericolosi, mentre il veganesimo è una vera religione. L’anno scorso, per la Tabarrata nazionale, raccoglievo iscrizioni alla cena. In quell’occasione un tabarrista mi disse di essere vegano. Allora non puoi partecipare, gli risposi. Un vegano non può mangiare a casa mia, partecipare alle mie manifestazioni. Sono durissimo su questo fronte. Cosa faccio, due menù? In quel caso aveva ancora più importanza. Il tabarro è il tipico simbolo dell’Italia contadina, per cui macellatrice di maiali. Non è mai esistito un portatore di tabarro vegano prima del 2004, ci sarà un motivo. L’unica cosa buona di vivere in centro è che ho a portata di mano il miglior macellaio. Il mio piatto preferito è il pesto di cavallo crudo, lo mangio un giorno sì e uno no. Sono intransigente: se diventi vegano non sei più mio amico, come se diventi mussulmano.

In cosa ti senti minacciato?
L’incombenza di questa nuova religione in ogni ambito. È una minaccia verso il cattolicesimo e la libertà. Quando arriva a tavola un vegano, tutto tende a uniformarsi a lui e non è lui che si eleva all’onnivoro. Quindi c’è una riduzione, della varietà, della bellezza del mondo e anche dell’economia. Non si può convivere. Con il mussulmano devi togliere la salsiccia dalla mensa scolastica, così come per il vegano. Le minoranze, se sono militanti, producono una riduzione della varietà dell’esperienza della vita. Tutti gli animalisti sono ambientalisti e molti ambientalisti sono animalisti. Oggi è più pericoloso parlare di gattini rispetto a questioni importanti. Ho ricevuto minacce anche dai tifosi romanisti. Però mediamente i più feroci sono gli animalisti. Essere onnivoro per me è prima di tutto un fatto religioso. Gesù era onnivoro. E poi edonistico, perché mi piace tutto. Nel caso del cinghiale anche utilitaristico, perché bisogna ridurne il numero sennò ammazzano le persone se ci vai a sbattere con la macchina.

Altre cose che Camillo Langone non sopporta?
Odio lo sport e la comicità. Di sport ci sono quelli più fastidiosi e quelli meno. Ma per me è un fatto di pensiero e sensibilità, oltre che religioso. Della comicità non mi fanno ridere le battute da molti anni. In più in televisione, l’orrore. Il ritorno di Boldi e De Sica mi può far piacere, gli voglio bene, però non andrei a vedere i loro film. Li seguivo negli anni ’90, ma ce n’era ancora bisogno? Questi comici mi sembra che se la ridano fra loro. Cerco il buonumore, ma non lo trovo. Un tempo lo trovato nel cinema. Carlo Verdone mi piaceva, adesso mi mette tristezza. È depresso e deprimente. Gli voglio bene per quello che ha fatto, ma non ho questo tipo di nostalgie, se mi viene una nostalgia la uccido nella culla. Voglio sempre roba nuova. Abbiamo avuto Luttazzi, purtroppo, e altrettanto purtroppo lo rivedremo. Mi ispira una certa repulsione, al di là dei plagi. Perché c’è sempre una violenza, come nello sport, una presa per il culo di qualcuno, di categorie. Poi gli imitatori, sono scadenti, come quelli che si travestono. Tristissimi. Antonio Rezza, che è un grande attore, mi diceva: “Quei poverini che fanno le imitazioni”. Vuol dire che non esisti e non hai un’idea. Luttazzi ha una comicità da laureati un po’ fighetti, che si credono superiori al resto del mondo, invece li considero inferiori.

La pensi come Flavio Briatore sulla laurea?
La laurea è un vero marchio di infamia. Le peggiori sono quelle umanistiche, che ti attaccano una prosopopea e una presunzione insopportabili. Il simbolo era Umberto Eco, presuntuosissimo. Un personaggio ridicolo, sembrava il dottor Balanzone, da commedia dell’arte. Un avanguardista, uno sterile erudito. E umanamente un trombone incredibile. Mi ricordo a una conferenza a Bologna dove faceva continuamente battute e rideva prima di averle concluse. Si sbrodolava e si piaceva tantissimo. Insopportabile.

Dal punto di vista letterario, invece, il tuo modello è Alberto Arbasino?
Certamente, un maestro di scrittura. L’ho conosciuto negli anni ’90. Non era certo un simpaticone, ma non ha importanza. Come Ceronetti, altro maestro abbastanza respingente. Ma gli scrittori vanno conosciuto nei libri. Fratelli d’Italia è stato importantissimo per l’idea di provare interesse verso tutto: l’alto e il basso della cultura. È la mia tendenza. Arbasino mi ha insegnato e stimolato a scrivere con un linguaggio vicino al parlato mescolando varie ossessioni. Se ci penso, però, con il senno di poi è evidente che quel tipo di letteratura era basata su due elementi: la giovinezza e la ricchezza. Allora lui era sia giovane che ricco. Quando non sei più giovane non funziona. Come On the road di Jack Kerouac, devi avere 20-30 anni per partire all’avventura. Io per ora non ho età, perché continuo comunque a fare le stesse cose.

C’è qualche scrittore giovane che apprezzi e ti senti di consigliare?

Li cerco ma non li trovo. Considero Vittorio Sgarbi il massimo italiano vivente. Ma anche in lui vedo la senilità, l’insufficienza, il ripetersi, il non lasciare una traccia adeguata, un libro fondamentale. Essendo lui il massimo, pensa gli altri. Ammiro Franco Maria Ricci, però ha la sua età. Mancano i giovani. Nella pittura trovo più vitalità. Il genio non l’ho trovato, ma già che esistano pittori giovani è un fatto positivo. Essere pittori oggi in Italia è come candidarsi al suicidio sociale. Non lo fanno per diventare ricchi o famosi, ma per esigenza. Nella musica incontro Francesco Bianconi dei Baustelle, che però non è un entusiasta, ma un melanconico negativo. Ha scritto la più bella canzone del 2018 che è Il minotauro di Borges. L’ultima che in letteratura mi ha impressionato è Isabella Santacroce. È un’amica, l’ho amata tanto. Quando uscì Fluo. Storie di giovani a Riccione rimasi a bocca aperta e mi dissi: devo conoscerla. Ce la feci. E poi da giovanissimo avevo lavorato come bagnino in Riviera romagnola, quindi quelle storie ambientate sullo sfondo di Viale Ceccarini mi fecero perdere la testa. Ma non ci sono giovani. È un dramma.

Andando oltralpe, lo scrittore Michel Houellebecq è tornato con un libro che sta facendo discutere, Serotonina. Che ne pensi?
Con lui mi sono ubriacato a Milano, parecchi anni fa, intervistandolo. È un grosso bevitore. Gli portai una bottiglia e ce la scolammo insieme. Facevo finta di comprendere il francese, in realtà ci capivo pochissimo, però intanto bevevamo uno squisito Montepulciano d’Abruzzo. È un grandissimo scrittore, ma ho smesso di leggerlo da Sottomissione. Credo troppo in ciò che scrive e lo sento molto vicino alla mia sensibilità. Anche Serotonina è depressivo e già sono triste. Invece cerco chi mi ecciti, chi mi stimoli.

In una trasmissione televisiva hai citato Bukowski con grande enfasi. Lui ti stimola?
Non era cattolico, ma non ricordo un suo anticattolicesimo. Non è mio maestro di bevute, troppa birra, ma si può perdonare perché americano. L’ho letto, mi è piaciuto. Di Taccuino di un vecchio sporcaccione ho apprezzato la visione dello sporcaccione-vecchio. Di solito “si nasce incendiari e si muore pompieri”, oppure “quando la carne è frusta l’anima si fa giusta”. Invece è bello, raro, prezioso e interessante il vecchio malevolo, negativo e sporcaccione rispetto al giovane finto trasgressivo, come i rapper. Fedez infatti è un borghese tristissimo, un personaggio di un conformismo e una inutilità totali. Bisogna invece avere la forza di essere diversi da vecchi. Quando sei giovane ci sono gli ormoni che ti assistono. Ammiro in Bukowski di essere stato un vecchio sporcaccione. I rapper e i trapper, invece, tendono tutti al “giovane sporcaccione”, ma in realtà sono dei conformisti terribili. Tutti uguali. Tutti deprimenti. E poi con i tatuaggi, come quelli che porta Sfera Ebbasta, siamo al satanismo della rappresentazione, perché tutto ciò che è indelebile è anti cristico, anti cristiano, anti biblico. Appartiene ad altre religioni.

Ecco, ma cosa piace davvero a Camillo Langone?
Quasi tutto. Il mio profilo Instagram, per esempio, in questo momento è la mia gioia, perché lo guardo e dico: com’è bella la mia vita. Poi non è esattamente così. Alfred Hitchcock diceva: il cinema è la vita con le parti noiose tagliate. Instagram è il mio film. Metto tutta roba vera, però senza le parti brutte, che inevitabilmente ci sono. Su Facebook sono presente, ma per le masse senili. Lo uso per pubblicare notizie di mostre, presentazioni, articoli e libri. Però mi dà fastidio perché è pieno di parole, di polemiche. Dicono che Twitter sia peggio, mi sono sempre rifiutato di provarlo. La vita è una cosa bruttissima. La mia vita è Instagram. Sono un ossessionato. Ho un elenchino sul computer di cose da approfondire. Secondo me io devo sapere tutto, ho un delirio di onniscienza e avere dei buchi per me è terribile. Ultimamente per il profilo di Instagram ho trovato una filastrocca: “L’arte e l’arte di vivere. Pittura, letteratura, liturgia, leccornie, bottiglie, Italia”.

A questo punto è inevitabile parlare del tuo prossimo libro: Dei miei vini estremi Un ebbro viaggio in italia (Marsilio).
Intanto a parlare di vini si rischiano meno querele. E poi i vignaioli sono i migliori italiani che abbia mai conosciuto. Sono legati alla terra, ai tempi della natura, alla lentezza, all’impegno, insomma sono persone serie. Difficile che un vignaiolo sia un cretino, un isterico e che abbia la mentalità del vip ‘querelomane’ che pensa sempre a sé stesso. Sono meglio anche dei cuochi, i quali vanno in televisione e si bruciano, non capiscono più nulla. Ora stanno consumando i cuochi e la prossima frontiera saranno i parrucchieri. È difficile portare i vignaioli in tv, perché la produzione è lenta, con grossi costi di produzione. Non puoi concentrare il vino in una prova.

Da quel che stiamo bevendo, mi sembra di capire che il Lambrusco la farà da padrone.
Eccome, visto che sono il massimo ‘lambruschista’ vivente. Non sopporto i vini fermi, concepisco solo quelli frizzanti. Il Lambrusco è una famiglia di vitigni, con tante province coinvolte, tante tipologie di vinificazione. Come fai a dire che non ti piace? È una affermazione che non si può sentire. È prodotto a Parma, Reggio, Modena, Bologna, Mantova e in un pezzettino di Cremona. Può essere in autoclave, rifermentato in bottiglia, ci sono centinaia di Lambruschi e ogni anno cambiano, perché il vino è una cosa viva. Da cultore del rosso frizzante apprezzo anche il Gutturnio, la Barbera vivace, la Bonarda frizzante, la Fresa vivace. Poi segnalo un micro fenomeno interessante, dei rifermentati in bottiglia fuori da queste zone. Tecnicamente il vino avrebbe bisogno del clima orrendo della Pianura Padana: si bloccava con il freddo e ripartiva con il caldo. Ma oggi in cantina si può fare tutto.

Per cui niente vini fermi?
Attacco i grandi vini toscani, in particolare quelli che non sono fermi ma morti. Un orrore. Sepolti, nel legno, nei barrique. La vita non la ritrovo neppure nello spumante, perché è presuntuoso, con prezzi alti, troppo prestigio. Invece il vino frizzante è contadino. Qualcosa di più naturale. Lo champagne e lo spumante sono sinonimi di grandissime aziende, multinazionali. Se vuoi essere legato alla terra non puoi bere quella roba lì. In definitiva il vino fermo per me non esiste assolutamente. Piacenza mi piace perché è la capitale del vino in scodella. C’è una catena di ristoranti che fa cucina piacentina, ma forse non lo sanno neanche i piacentini. Nel mio prossimo libro mi dedicherò alle città italiane più piccoline, più ‘sfigate’ e ho già scritto il capitolo su Piacenza. Ho queste ossessioni. Cose piccole, rare, peculiari, nascoste o semplicemente non viste da chi non guarda. A Piacenza passano tutti gli italiani, non è fuorimano, ma nessuno la vede.

Andrea Scanzi è giornalista, scrittore e sommelier. Per caso lo leggi?
Essere sommelier è una colpa, come la laurea. Sono sempre targhe e bolli. Il sapere è dovuto allo studio ma privato, personale. Nel caso dei sommelier sono contrario perché tendono, per loro natura, a ridurre il vino al dato organolettico. Che è solo una parte. Mentre per me il vino è tanto altro. Il sangue di Cristo, la storia d’Italia, il territorio, l’incontro con le persone. Del vino che stiamo bevendo conosco il proprietario, la moglie, il figlio, sono stato nelle varie aziende. Come fai a dire solo “è buonp” o “è cattivo”. È come giudicare una donna solo dalla fotografia. Si può fare, ma non sarà mica una gran bella cosa. I sommelier sono bravi, ma nel loro specialismo perdono di vista tanto altro. Scanzi a pelle non mi piace, però ho letto il suo libro sul vino ed è scritto bene. Ma anche lui ha un atteggiamento paternalistico verso il Lambrusco. Ne parla bene, perché come fai a parlarne male, però usa espressioni come ‘beverino’, ‘piacevole’, ‘allegro’, ‘si fa bere’. È come considerarlo lo scemo del villaggio.

Altra tua passione riguarda la pittura e si è appena conclusa ad Ascoli Arte che protegge, la mostra che hai curato sulla pittura sacra. Qual è lo stato della pittura in Italia?
Mostra di arte sacra, non dissacrante. Molta arte contemporanea, occupandosi del sacro, si è premurata di dissacrarlo. Ho scelto opere sacre che tentino di riconsacrare, cercando di scegliere fra quelli bravi. Molti sono artisti importanti del circuito profano, solo uno vive solo di arte sacra. Il pubblico è completamente ignaro, nessuno ci legge, nessuno è interessato a capire nulla. Senti in giro che la pittura è morta con Paul Cézanne e sono convinti che queste cose non esistano. L’Italia è piena di pittori bravissimi, molti sono giovani, cerco semplicemente di promuoverli. Esistono persino i pittori di arte sacra. Ma devi vederli, entrare in contatto con loro.

Moltissimi però sono andati a vedere il film su Vincent van Gogh.
Ecco, infatti ho un certo livore nei suoi confronti. Non con l’artista, ma verso il mito. E le persone che vanno a vedere le sue opere, ma non quelle dei pittori vivi. Sono gli eredi di coloro che quando van Gogh era in vita non se lo filavano. Il film non lo vedrò. Andate ad apprezzare i pittori vivi.

Dalla cultura alta a quella bassa, come procede la querela con Francesco Totti e Ilary Blasi?
È una storia tristissima, solo perché in una Preghiera sul Foglio criticai i nomi stranieri dei tre figli e della stessa Blasi. Una vicenda che mi ha fatto ancor più disamorare del giornalismo, non si può dire quasi più niente. Montale scrisse: vissi al cinque per cento, non aumentate la dose. Anch’io scrivo al cinque per cento. Poi ci sono gli imbecilli e i sottosviluppati che pensano io voglia provocare. Ma provoca colui che calca la mano, io mi freno. Mi sono sempre frenato e da quell’episodio ancor di più. Ho delle cause assurde. A un certo punto mi sono detto: ma chi me lo fa fare? Non me ne frega più niente, anche perché l’eroismo non viene riconosciuto. Prima mi sentivo più libero di fare nomi, adesso solo discorsi generali. Ma posso essere citato in giudizio perché critico un piatto in un ristorante? Poi perdono, ma non c’è la punizione per querela temeraria.

Cerchiamo di aumentare la percentuale, su alcuni colleghi o temi delicati: Roberto Saviano?
Non so quasi più chi sia, perché non vedo la televisione. Ho letto Gomorra una settimana dopo l’uscita e mi piacque. Forse dovrei vergognarmene. Apprezzai la scrittura, ci ritrovai molto Malaparte, La Pelle, la stessa disonestà, il piacere della parola contro la realtà. Il libro lo lessi e fu scritto bene. Poi purtroppo l’autore pensa male. Quelli che dicono, come lui, di avere un impegno sociale, sono incivili. Finché vuoi combattere la Camorra sono d’accordo, ma ha ampliato lo spettro a tal punto che sembra voler combattere la civiltà.

Massimiliano Parente? Scrittore che spesso provoca i lettori cattolici e con cui condividi lo spazio su Il Giornale.
Purtroppo l’ho conosciuto. È un ateo e un nichilista. Ma il suo sembra un po’ un anticlericalismo ottocentesco. Però scrive bene. Non è un problema, come Saviano. Non li considero nemici, magari sono persone che non ho voglia di frequentare. Ma a Parma non capita questo rischio.

L’anno appena passato è stato caratterizzato dal movimento #MeToo. Perché quella smorfia?
Sono ondate di fango, come fai a opporti? Come quando arriva lo tsunami, devi scappare, puoi solo nasconderti.

Non pensi che ci siano ancora troppe poche donne in ruoli di vertice?
Donne al vertice? No, sono contrario. Io credo nella disparità e nella differenza. Non sono sinonimi perfetti. La disparità è differenza, ma non tutta la differenza è disparità. Sono per entrambe le cose. Le donne al vertice lo considero un orrore. Un abominio della desolazione. Come uomo mi sento offeso da una donna al comando e se mi chiamasse un giornale che ha per direttore una donna mi sentirei in difficoltà. Anche con Caterina Soffici soffrii un po’, ma lei aveva degli aspetti bellissimi. Si rollava le sigarette e fumava in ufficio. Sono contrario al potere rosa. Di rosa amo solo il vino.

Quindi sei contrario anche alla definizione femminicidio.
Basta solo la parola. È orribile perché maschicida, cioè usata per uccidere l’uomo. Non esiste se non con lo scopo di uccidere l’uomo. Quindi mi sento vittima della parola femminicidio.

In uno dei tuoi articoli hai messo in dubbio anche l’evoluzionismo. Non è esagerato?
Mentre il terrapiattismo è smentito dalla scienza, il creazionismo no. La selezione genetica è un fatto reale, come la giraffa che ha allungato il collo per mangiare. Però non è mai stato riprodotto in laboratorio il passaggio da una specie all’altra. Sono delle ipotesi. Non sono sicuro che non sia vero, però non accetto che chi non crede in questa teoria è considerato un buzzurro. Sono intermedio, cioè scettico rispetto all’ipotesi evoluzionista.

Pochi dubbi, invece, sulla pena di morte.
Ci sono persone che meritano di morire. Fanno solo danni e tornerebbero a farli. In casi estremi, naturalmente. Per reati gravissimi e commessi da persone recidive. Un killer della Camorra, per esempio, perché deve stare al mondo? La sua morte non può che liberare l’umanità. Non sono per la pena di morte verso chi investe una persona da ubriaco, che può essere una disgrazia.

A sorpresa, forse, ti sei dichiarato a favore delle droghe leggere.
È il male minore. Sono liberale, su droghe e prostituzione. La prostituzione esiste nella Bibbia. Una antenata di Gesù si è prostituita, di cosa discutiamo? Non capisco perché non sono già aperte le case di tolleranza. E sono moderatissimamente favorevole alla droga legale. Esiste, andrebbe solo contenuta. Altrimenti diamo lavoro al crimine. Io sono un realista.

Una curiosità: siamo a Parma ma nella tua cucina non vedo il Culatello.
Assolutamente no. È presuntuoso. Non puoi tagliarlo con il coltello, perché deve essere sottilissimo, quindi richiede una macchina. Malissimo. E poi ha la presunzione di essere il re dei salumi, ma è illogico. È senza grasso, che è indispensabile per conservare il salume. Infatti, spesso si mangia del culatello secco, fibroso, che sembra cartone, perché non protetto. Il grasso mantiene i salumi freschi e morbidi, ci dona la sensazione di sazietà e poi è un trasmittente del gusto. Una cosa completamente magra non è buona da mangiare. Preferisco il salame, quello con il budello gentile.

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