MADRID- Domenica 28 aprile, per la terza volta dal 2016, la Spagna va alle urne in anticipo sulla legislazione per eleggere Parlamento e Senato, sperando di formare un esecutivo capace di arrivare al 2023. Dopo il ribaltone dello scorso giugno, quando grazie a un’iniziativa di “sfiducia costruttiva” (meccanismo presente nella Costituzione spagnola e tedesca), che ha consentito, anche con la legislazione in corso, il passaggio delle redini del Paese dalle mani del premier Popolare (PP) Mariano Rajoy a quelle del leader socialista Pedro Sánchez, dopo otto mesi di vita il Governo targato Psoe è caduto. Merito dei partiti nazionalisti catalani e baschi che gli hanno levato la fiducia: a febbraio Catalogna e Paesi Baschi, irritati per il nulla di fatto, decisero di staccare la spina allo zoppicante esecutivo di Sánchez, dopo mesi d’incontri infruttuosi sul tema dell’autodeterminazione. E se per la politica è tutto da rifare, l’economia non sembra risentire dello stallo legislativo, e continua a crescere al ritmo annuale del +2,5.
È ipotizzabile quale volto avranno le Cortes lunedì 29, ma rimangono molti dubbi sul numero di seggi e la tenuta delle eventuali coalizioni. La maggioranza delle preferenze, gli elettori spagnoli (sono 37 milioni gli aventi diritto, di cui 2 milioni residenti all’estero) la daranno ai Socialisti (Psoe), stimati al 28 per cento, in rialzo, con un introito di 115/130 seggi parlamentari. Un risultato interessante rispetto agli attuali 85, ma di molto sotto la maggioranza assoluta dei 170 scranni. Il bel Pedro riuscirà a governare questa volta? Anche Felipe González, il leggendario leader dei Socialisti iberici, mantenne saldamente governi di minoranza. Felipe, però, resta una leggenda ed è famoso il suo dissenso per Pedro che, tuttavia, ha ereditato un partito moribondo, minato da processi e arresti per corruzione non dovuti a lui, e gli ha restituito un minimo d’ossigeno e di credibilità.
Per l’opposizione del Partido Popular (PP) che ha a capo il giovane Pablo Casado, erede di Rajoy si prevede, invece, una derrota, una sconfitta: il partito di calle Génova prenderà tra il 22 e il 20 per cento di preferenze e per emergere, come già stabilito, dovrà accordarsi con Ciudadanos di Albert Rivera e lo scomodo Vox, la falange di ultra destra che fa rabbrividire la sinistra iberica per il suo exploit e la radicale veemenza del suo pensiero: rivelazione delle regionali andaluse dello scorso autunno, il partito erede di Francisco Franco, ora guidato da Santiago Abascal, potrebbe facilmente crescere fino al 20 per cento (quasi 100 seggi), se non oltre. Vox che vuole eliminare le autonomie, chiudere i porti spagnoli ai clandestini, autorizzare soltanto lo spostamento di popoli di lingua e cultura ispanica, che vuole vietare l’aborto e porre fuorilegge le associazioni radicali femministe, punta a entrare di peso nelle istituzioni nazionali con gli slogan “Stop ai clandestini” e il trumpiano “Prima gli spagnoli!”. Nei prossimi mesi sarà la chiave per la destra spagnola che sfruttando l’ambiguità politica dei catalani, già rei di avere sfiduciato Sánchez, potrebb trarne vantaggio e fare ritorno al palazzo della Moncloa.
Il voto femminile potrebbe essere l’ago della bilancia domenica prossima: i sondaggi stimano che il 60 per cento degli elettori indecisi, sono donne. Anche se i principali partiti hanno corteggiato l’elettorato femminile con temi in rosa, denunciando il divario salariale e difendendo i loro diritti dagli attacchi di Vox, nessuno ha pensato a una potenziale premier donna
Ciudadanos e Unidas Podemos (che per l’occasione si veste al femminile, forse per scusarsi per l’assenza di candidate), le due forze populiste che in meno di dieci anni, hanno sgretolato il granitico bipartitismo spagnolo, dando via al caos legislativo delle elezioni anticipate e delle campagne elettorali blitz, non dovrebbero brillare alle urne. Gli ex Indignati di Pablo Iglesias – che come Di Battista vorrebbe mollare il comando per un anno sabbatico – corrono assieme a Izquierda Unida (i leggendari comunisti spagnoli) e i verdi di Equo. Pablito col codino da tanguero e la camicia blu con le maniche tirate sui gomiti anche quando è alla davanti a re Felipe VI, punta a un misero 13/15 per cento, quando nel 2016 fu premiato con un 21,8, pari a 40 seggi contro i precedenti 72. I catalani Ciudadanos (C’s), sovranisti e anti secessione, del carismatico leader Albert Rivera (l’unico candidato che ha accesso qualche scintilla durante i due recenti e noiosissimi dibattiti tv) hanno spostato il baricentro più a destra, pur guardando a vista Vox con cui non condividono quasi nulla. Rivera è stimato tra l’11 e il 14 per cento. Nessuna sorpresa, se non il rischio che il populismo di Vox, che offre soluzioni semplici a problemi complessi, eroda voti anche a Ciudadanos.
In un Paese che si dice progressista, attento all’eguaglianza di genere, rafforzata grazie alle riforme del Governo socialista di Zapatero che, negli anni tra il 2005 e il 2010, hanno alleggerito la legge sull’aborto e rafforzato le pene per chi commette violenze e femminicidi, le differenze salariali sono ancora evidenti: le donne guadagnano il 17 per cento in meno. I movimenti femministi, dai più moderati ai radicali, sono in mobilitazione da mesi e nelle settimane dopo l’8 marzo hanno puntualmente portato in piazza la protesta, aizzate dalle dichiarazioni di Vox che percorre una strada misogina. Nelle ultime tre elezioni nessuno dei candidati alla presidenza del Governo era donna, pur avendo sindache e ministre in città e dicasteri strategici. Il voto femminile potrebbe essere l’ago della bilancia domenica prossima: i sondaggi stimano che il 60 per cento degli elettori indecisi, sono donne. E anche se i principali partiti, hanno corteggiato l’elettorato femminile con temi in rosa, denunciando il divario salariale e difendendo i loro diritti dagli attacchi di Vox, nessuno ha pensato a una potenziale premier e a consentire più partecipazione delle donne nella politica attiva, non solo come vice, ma come titolari.
Piuttosto che pennellarsi i baffi, José Maria Aznar, classe 1953, li ha tagliati, ma appare ancora in grande forma. Sarà per i suoi maglioncini coloratissimi e i venti chilometri di corsa settimanale e per la voglia, dopo quasi quindici anni di silenzio, di partecipare nuovamente alla vita del suo Partido Popular. È lui l’artefice delle alleanze con Ciudadanos e Vox. La volpe dei Popolari è attivissima, presenzia ai dibattiti in tv e in strada, parla molto con Casado e Rivera, come il nonno che dà lezioni di vita (politica) ai nipotini 3.0. E spetta ad Aznar fare digerire ai moderati Ciudadanos la presenza di Vox che scalpita per emergere, mentre il fondatore Abascal gira con una Beretta Parabellum automatica con tanto di licenza. E allora il PP ci manda la vecchia volpe della Spagna dell’età dell’oro a parlare e mediare con questo quarantatreenne a capo dei nipotini di Franco che hanno tanta voglia di ripulire il paese. Era dalla batosta elettorale del marzo del 2004, influenzata dagli attentati islamisti di Atocha, che Aznar non si faceva vedere a calle Génova. Ritiratosi nella sua villa sulla Sierra da cui vede Madrid immersa in una nuvola blu, non ha mai nutrito fiducia in Rajoy, aspettando di allevare un suo delfino giovane che potrebbe essere Casado che, però, non ha fatto ancora innamorare l’elettore conservatore.
Sul tavolo del prossimo Governo spagnolo rimane la scottante questione della Catalogna, una mina vagante per la destra e la sinistra. Il verdetto pro o contro gli indipendentisti, che da mesi denunciano la presenza in carcere dei loro leader per reati di opinione politica, potrebbe riaprire con più violenza la questione
Sul tavolo del prossimo Governo spagnolo rimane la scottante questione della Catalogna, una mina vagante per la destra e la sinistra. Probabilmente Sánchez preferirebbe togliersi due molari senza anestesia, invece che prestare nuovamente fiducia e attenzione a Carles Puigdemont, Quim Torra e Oriol Junqueras, i leader catalani che hanno staccato la spina al suo esecutivo, insoddisfatti per come si erano messi i negoziati tra Barcellona e Madrid. L’ex premier socialista non ha mai lasciato intendere alla Generalitat di concedere il referendum per l’indipendenza, ha offerto più autonomia in numerosi settori, dalle tasse alla scuola. Un dialogo che, seppur interrotto e poco fruttuoso, c’è stato, a differenza dei sette anni di guida dei Popolari che non hanno mai voluto avviare un tavolo d’incontri con Puigdemont fuggito a Bruxelles, Junqueras in galera dal 2017 e Torra a caccia di alleanze.
L’ex premier Popolare Rajoy ha sempre messo in basso alla lista delle priorità la questione catalana, sperando, ingenuamente, che il tempo sopisse le velleità secessionistiche, davanti a temi pesanti come crisi economica e terrorismo. Così non è stato e come difensore dell’unità nazionale, Rajoy è stato costretto a usare il pugno di ferro, sicuramente sbagliando sull’uso della violenza da parte della Guardia Civil che non ha saputo dosare la propria forza davanti a inermi catalani. E tra un paio di mesi, o forse più, sarà pronunciato, il verdetto del processo ai membri della Generalitat ribelle che nel 2017 fece lo strappo storico da Madrid e si proclamò Repubblica catalana, facendo saltare i nervi a Rajoy e ai giudici della Corte Costituzionale. Da due mesi procede il dibattito processuale nel Tribunale Supremo: una decina tra presidenti, vice e ministri sono gli accusati di sedizione, disobbedienza e malversazione di denaro pubblico (destinato al referendum illegale per l’autodeterminazione). Più un centinaio tra funzionari, impiegati, agenti e capi della polizia catalana ancora da ascoltare. Il verdetto pro o contro gli indipendentisti, che da mesi denunciano la presenza in carcere dei loro leader per reati di opinione politica, potrebbe riaprire con più violenza la questione a Barcellona e nell’intera Spagna.