Prendiamocela comodaVergogna, Italia: 32 anni dalla fine del nucleare e ancora non sappiamo dove mettere i rifiuti radioattivi

Si chiama Sogin e pochi la conoscono: è la società creata ad hoc per gestire la denuclearizzazione in Italia, dopo il referendum del 1987 e lo spegnimento delle centrali. È costata miliardi e ancora teniamo i rifiuti radioattivi dentro le centrali. La politica,nel frattempo, dorme

Se pensavate di aver chiuso con il nucleare più di 30 anni fa, vi siete sbagliati di grosso. Nel 2015 si è conclusa, a cura della Sogin, la realizzazione della Cnapi (Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale e parco tecnologico) relativa ai rifiuti radioattivi, ma i Ministeri dello sviluppo economico e dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare non hanno rilasciato il nulla osta alla pubblicazione anche se più volte annunciato. L’attuale Governo non ci pensa proprio a prendersi una rogna del genere: eppure una decisione è più che urgente. Tradotto: ancora nessuno sa dove l’Italia depositerà in via definitiva e (finalmente) in sicurezza i propri rifiuti radioattivi.

La società preposta allo smantellamento degli impianti nucleari italiani e alla gestione dei rifiuti radioattivi compresi quelli prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare, è appunto la Sogin e negli anni ha accumulato gravi ritardi nell’attività di smantellamento dei siti nucleari. Le attività cosidette di decommissioning sono finanziate tramite costi aggiuntivi scaricati sulla bolletta elettrica, comportando, dunque, un aggravio economico in capo agli utenti.

I rifiuti radioattivi in Italia derivano principalmente dal programma nucleare pregresso e sono stoccati nei depositi temporanei delle centrali nucleari di Trino, Latina e Garigliano e Caorso, negli impianti ex Enea Eurex di Saluggia, Itrec della Trisaia, Opec di Casaccia, nel deposito Avogadro di Saluggia e nelle installazioni del Centro comune di ricerca di Ispra di Varese della Commissione europea. Tutti in carico alla Sogin. Le operazioni di smantellamento sarebbero dovute terminare nel 2025, con un costo pari 6,48 miliardi di euro. In seguito all’insediamento del nuovo consiglio di amministrazione, la fine dei lavori è stata fissata per il 2036, con un aumento dei costi di quasi un miliardo di euro.

I ritardi e gli aumenti dei costi per la decommissioning sono a carico dei consumatori elettrici che nei siti interessati convivono con delle vere e proprie bombe ad orologeria. Basti pensare al sito di Saluggia (Vercelli) dove sono custoditi 230 metri cubi di rifiuti radioattivi liquidi ed acidi, prodotti a partire degli anni ‘70, durante l’esercizio dell’impianto Eurex. Secondo l’inventario nazionale quei rifiuti contengono il 75 per cento del totale della radioattività di tutti i rifiuti sul territorio italiano. Dopo l’alluvione del 2000, l’allora presidente dell’Enea inviò al Governo una lettera nella quale venivano sintetizzati i risultati di uno studio che certifica che lo sversamento di una parte sostanziale di tali rifiuti causerebbe gravissime contaminazioni in vaste regioni adiacenti ai fiumi Dora e Po e alle falde acquifere.

Dal 2001 al 2018 Sogin è costata ai consumatori elettrici 4 miliardi di euro, di cui 2 miliardi per il funzionamento della società e per il mantenimento in sicurezza, e solo 780 milioni per il condizionamento dei rifiuti pregressi e per lo smantellamento

Insomma in Italia, per quanto riguarda i rifiuti radioattivi, a 50 anni dalla loro produzione non solo ancora nulla è stato risolto, ma il rischio di incidente è aumentato notevolmente. Eppure tra i compiti della Sogin c’è anche quello di garantire la sicurezza degli impianti, delle strutture, la salute dei lavoratori, della popolazione, la salvaguardia dell’ambiente. Per questo il sistema regolatorio riconosce a carico dei consumatori elettrici il rimborso dei “costi obbligatori”. Dal 2001 al 2018 Sogin è costata ai consumatori elettrici 4 miliardi di euro, di cui 2 miliardi per il funzionamento della società e per il mantenimento in sicurezza, e solo 780 milioni per il condizionamento dei rifiuti pregressi e per lo smantellamento.

Eppure tutto possiamo dire tranne che sentirci al sicuro: per il sito di Bosco Marengo ad esempio, dove aveva sede la “Fabbricazioni Nucleari”, la conclusione dei lavori di smantellamento delle strutture, sino al “brown field”, è ancora rinviata. Ad agosto 2014, nel sito è stata rinvenuta una quantità imprecisata di materiale industriale di scarto abusivamente interrato ma dopo quattro anni non è ancora ufficialmente noto il livello di pericolo radiologico e chimico dell’area e delle aree confinanti, utilizzate, in buona parte, per scopi agroalimentari. Insomma urge il decommissioning e soprattutto un deposito dove stoccare in via definitiva i rifiuti nucleari. Riusciranno il Ministro Di Maio e il Ministro Costa ad affrontare la situazione?

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