A casa nostraMigranti, ad asfaltare il decreto sicurezza adesso ci pensa una sentenza dell’Ue

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che uno straniero non può essere espulso se nel proprio Paese rischia di essere perseguitato. Il principio era già valido in Italia, ma con il decreto sicurezza si sfiora l’illegalità. Ben venga, quindi, la sentenza

Nei giorni scorsi, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che uno straniero non può essere espulso dal Paese in cui si trovafintanto che (…) abbia fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese d’origine o di residenza”. In Italia il principio di non refoulement già trova applicazione, come ha spiegato Matteo Villa (ISPI), quindi la pronuncia non è destinata ad avere un particolare impatto. Basti pensare che tra il 2013 e il 2017, sono stati emessi 23.045 ordini di espulsione verso Paesi che possono essere considerati insicuri – come la Siria, l’Iraq, la Somalia, l’Eritrea o il Sudan – ma solo il 4% di questi ordini è stato effettivamente eseguito. Tuttavia, nonostante non sia innovativa, la sentenza merita un rilievo particolare: recenti misure in tema di immigrazione, ispirate da un clima politico ad essa avverso, rendono essenziale ribadire certi principi essenziali.

È necessario, innanzitutto, spiegare il contenuto della decisione, che interpreta una direttiva e, quindi, vincola i giudici dei Paesi Ue per i casi analoghi. Essa fa chiarezza fra disposizioni non conformi: da un lato, la direttiva 2011/95/UE, in tema di protezione internazionale, consente di revocare o negare il riconoscimento dello status di rifugiato a chi per seri motivi rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova oppure, a causa di una sentenza definitiva per un reato di particolare gravità, costituisca un pericolo per la collettività, ma vieta che egli possa essere espulso se nel luogo di destinazione rischia di essere sottoposto a tortura o a pene e trattamenti inumani o degradanti (in conformità alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE); dall’altro lato, la Convenzione di Ginevra invece legittima l’allontanamento anche verso Paesi non sicuri se lo straniero rappresenta un pericolo o una minaccia per lo Stato ospitante. A fronte di questa differenza normativa, la Corte ha deciso che lo straniero vada tutelato dai rischi che correrebbe tornando in patria e, pertanto, anche se ha perso lo qualifica di rifugiato, non può comunque essere espulso.

Come si accennava, nonostante la sentenza ribadisca un principio già applicato in Italia – cioè il divieto di respingimento verso Paesi in cui la vita o la libertà possano essere minacciate – essa merita di essere evidenziata. Perché in un periodo in cui l’immigrazione è oggetto, da un lato, di disposizioni che paiono andare oltre i paletti dell’ordinamento, dall’altro, di atteggiamenti politici comunque ostili, non si può avere la certezza che principi rispettati in passato continuino a esserlo anche in futuro.

Ad esempio, prima del governo in carica non si sarebbero potute immaginare norme come quelle contenute nel cosiddetto decreto sicurezza, che presentano profili di legittimità dubbia: dalla perdita della cittadinanza per lo straniero che commette determinati reati, con disparità di trattamento rispetto agli italiani, i quali non perdono la cittadinanza anche se compiono i medesimi reati; alla possibilità di espulsione, a seguito del diniego di asilo, dell’immigrato sottoposto a procedimento penale per alcune violazioni di legge, pur in assenza di una condanna definitiva e anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale, con buona pace del principio di non colpevolezza e del diritto alla presenza in giudizio.

fino a qualche tempo fa sarebbe stata impensabile una lettera come quella in cui l’ONU rimarca «il clima di ostilità e xenofobia» che il governo italiano sta creando nei confronti dei migranti con le direttive sui salvataggi in mare del Viminale e la bozza di decreto sicurezza bis

Ancora in tema di espulsioni, assume un significato particolare pure la previsione, sempre nel primo decreto sicurezza, di un elenco di “Paesi sicuri”, da adottare con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, per velocizzare l’iter delle domande di protezione internazionale, ma anche dei respingimenti. Come osservato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), a decidere quale Paese possa essere considerato “sicuro” «sarà di fatto la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, che non è organo amministrativo indipendente ed è fortemente connesso per composizione e struttura organizzativa al potere politico»: pertanto, il rischio è che certe valutazioni possano non essere oggettive.

Inoltre, fino a qualche tempo fa sarebbe stata impensabile una lettera come quella in cui l’ONU rimarca «il clima di ostilità e xenofobia» che il governo italiano sta creando nei confronti dei migranti con le direttive sui salvataggi in mare del Viminale e la bozza di decreto sicurezza bis, a causa di un «approccio adottato dal ministro dell’Interno» che incide «seriamente» sui diritti umani e criminalizza «le operazioni di ricerca e salvataggio» delle ONG. Dunque, a fronte di quanto sta accadendo in tema di immigrazione – sotto il profilo normativo e non soltanto – forse appare più chiaro che lo spazio dato dai media alla sentenza può essere servito a rendere il pubblico più consapevole del principio da essa affermato e di eventuali tentativi politici di superarlo: del resto, il ministro dell’Interno ha già affermato che procederà al rimpatrio anche di coloro i quali secondo la Corte non sono rimpatriabili.

Detto questo, sul piano giuridico quale potrebbe essere in Italia la sorte di colui al quale sia stato revocato o negato lo status di rifugiato, ma che non possa essere espulso perché proveniente da uno Stato non sicuro? La pronuncia della Corte afferma che chi si trovi in questa situazione continua comunque a “godere di un certo numero di diritti previsti dalla Convenzione di Ginevra”, cui la direttiva 2011/95/UE rimanda (ad esempio, il diritto di adire i tribunali e l’educazione pubblica). E poiché è necessario un titolo che attesti tale situazione e consenta la fruizione di quei diritti, è presumibile che allo straniero possa essere accordato un permesso per “protezione speciale” – della durata di un anno (rinnovabile finché dura il pericolo nel Paese di provenienza) – che viene rilasciato dalla questura quando non sia possibile concedere la protezione internazionale né procedere all’espulsione per il rischio di persecuzioni o torture in patria. Chissà se tale soluzione sarà adottata o se lo straniero non rimpatriabile resterà fra gli irregolari (che intanto continuano ad aumentare). Anche per questo motivo la sentenza è importante: per non perdere di vista la distanza che può esservi tra la realtà e il diritto.

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