Pubblichiamo un estratto di “Rivoluzione Europea – Istituzioni, economia e diritti, quali proposte per un big bang europeo” (Egea), un e-book che raccoglie quattro documenti di proposta, volti a costruire una nuova Europa e firmati da alcune delle migliori teste in circolazione su questi temi. È il contributo che l’associazione Europa 21 Secolo vuole dare al dibattito pre-elezioni europee di fine maggio. E soprattutto al dibattito che si aprirà subito dopo, nella speranza che una nuova leadership europea sia in grado di trasformare queste e altre proposte in politica, per far sì che la costruzione europea torni a parlare alla vita delle persone, come è accaduto nei decenni del secondo dopoguerra grazie ai suoi padri fondatori.
Il 14 maggio al Teatro Franco Parenti Linkiesta presenterà l’ebook Rivoluzione Europea, a cura dell’Associazione Europa XXI Secolo, e delle loro quattro proposte per l’Europa di domani. Interverranno gli autori: Stefano Firpo, Vincenzo Galasso e Marco Leonardi. E con loro ne discuteranno i candidati: Lara Comi (Forza Italia), Daniele Viotti (Partito Democratico) Mariangela Danzì (Movimento Cinque Stelle) e Giulia Pastorella ( + Europa). Clicca qui per iscriverti all’evento.
Introduzione di Tommaso Nannicini.
«Riprendiamoci il controllo», recitava lo slogan della campagna referendaria a favore della Brexit nel Regno Unito. «Riprendiamoci moneta e confini», gli fece subito eco Matteo Salvini dall’Italia. Un richiamo vincente, non c’è che dire. I fautori della Brexit quel referendum l’hanno vinto. E la nuova Lega di Salvini governa l’Italia insieme al Movimento 5 Stelle e ormai è accreditata come il primo partito italiano da tutti i sondaggi. In paesi dove sempre più persone si aspettano meno dal futuro e percepiscono i propri governanti come incapaci di incidere su quei problemi che parlano alle loro vite, è chiaro il fascino del richiamo a riprendersi il controllo con gli strumenti degli stati nazionali. A fermare il treno della globalizzazione e dell’integrazione europea, per riacchiappare le fabbriche che si sono trasferite in paesi a basso costo del lavoro e per tenere fuori dalle nostre città il fantomatico idraulico polacco (anche se, magari, non la badante rumena, perché quella serve a coprire i buchi di un sistema di welfare tanto esteso quanto lacunoso rispetto a nuovi bisogni). Fermiamoci un attimo, però. I cosiddetti sovranisti, forti del loro successo elettorale, hanno davvero la situazione sotto controllo? O sembrano piuttosto come gli stregoni di marxiana memoria che hanno evocato forze che ora non sono in grado di controllare? Il Regno Unito è incapace di trovare un modo sensato per farla davvero, la Brexit, e il premier Theresa May si è beccata tre voti contrari del Parlamento sulle proposte di accordo con l’Unione Europea. Mentre qualcuno parla già di un secondo referendum, si sta scivolando verso la possibilità di un’uscita senza accordo con potenziali effetti dirompenti sull’economia britannica. L’Italia del governo giallo-verde, nel frattempo, allarga i cordoni della spesa corrente per far finta di mantenere una serie di insensate promesse elettorali, ma l’economia rischia di tornare in recessione e l’aumento del debito pubblico rende la prospettiva dell’Italexit, l’uscita del nostro Paese dall’euro, meno fantascientifica che nel passato.
Per carità, non basta criticare i pasticci dei sovranisti al governo per risolvere la crisi della politica tradizionale. Se qualcuno si illude che, passata la nottata, si tornerà al paradiso perduto della lotta tra sinistra riformista e destra conservatrice, dei summit intergovernativi tra leader moderati in quel di Bruxelles, ha fatto male i conti. Per dirla con Salvatore Veca, le radici profonde dell’insorgenza del populismo sovranista – che toccano al cuore la crisi della politica e della democrazia rappresentativa – ne spiegano anche la resilienza, la persistenza di un solido radicamento elettorale perfino di fronte a scelte di governo fallimentari. Sul futuro dell’Europa si scontrano tre linee politiche: (1) quella sovranista di rottamare la costruzione europea; (2) quella conservatrice di non toccare lo status quo; (3) e quella neo-europeista di costruire un’Europa politica con chi ci sta. Questa “terza via” è l’orizzonte che lega tra loro le proposte di questo libro. Una terza via tra l’euro-ottimismo inerte di chi spera che – appunto – passi la nottata, l’economia riparta e i consensi dei populisti si asciughino, senza bisogno di cambiare le istituzioni e le politiche europee, e l’euro-disfattismo di chi dipinge l’Europa come il capro espiatorio di tutti i nostri mali, sperando di lucrare consensi dal disagio economico e sociale.
Intendiamoci: dire che l’Europa deve essere rivoltata come un calzino non vuol dire inseguire i populisti. Vuol dire fare quello a cui ogni europeista dovrebbe aspirare: caricarsi dell’onere della prova rispetto agli strumenti con cui l’Europa può tornare a creare benessere e giustizia sociale. Perché in politica non sei misurato sulle conquiste di ieri, ma sui problemi che risolvi oggi. Qui nessuno propone di creare un super Stato. E neanche di “cedere sovranità”, come troppe volte abbiamo detto nella nostra retorica. Si tratta di costruire una nuova sovranità intorno a problemi comuni che non avranno soluzione se non a livello europeo. Con chi ci sta, anche arrivando a uno sdoppiamento istituzionale tra chi si accontenta di un mercato unico e chi ambisce a qualcosa di più. Lo so: la storiella della nuova Europa gli elettori l’hanno già sentita. Ci abbiamo fatto molti convegni. Mai una scelta. Per questo serve radicalità nelle scelte, una volta per tutte. Per dirla con il titolo di questo libro, anche se i suoi autori non sono soliti vestire i panni di novelli giacobini, serve una rivoluzione. Per leggere nella giusta prospettiva le proposte tanto concrete quanto rivoluzionare del libro, nel loro tentativo di delineare la terza via di cui sopra, dobbiamo mettere in fila tre elementi. Primo, c’è da capire che cosa è andato storto: perché l’Unione Europea, nel mezzo delle crisi che l’hanno colpita (finanziaria, economica e migratoria), è apparsa fuori controllo e lontana dai suoi cittadini. Secondo, c’è da capire che cosa non sta funzionando nella risposta dei sovranisti: perché l’illusione di costruire muri non ci rende padroni a casa nostra, ma schiavi di decisioni prese altrove, magari a Pechino o Mosca. Terzo, c’è da capire che fare: per non ripetere gli errori del passato e trovare una prospettiva che rimetta la costruzione europea sui binari giusti. Altrimenti, anche le proposte che seguono resteranno roba da convegni, senza tradursi in azione politica capace di cambiare il destino di noi europei.
Invece di usare i margini di flessibilità esistenti per fare politiche anti-cicliche di fronte a una crisi eccezionale, l’Unione Europea si è preoccupata solo di inasprire un sistema sempre più barocco di regole fiscali
La perdita del controllo: i limiti e gli errori dell’Unione Europea
I ritardi della costruzione europea si misurano su molti piani, da quello geopolitico a quello della difesa e della sicurezza comune. Ma come ci ha spiegato tante volte Sergio Fabbrini, le “crisi multiple” che si sono susseguite dal 2008 a oggi (finanziaria, economica e migratoria) hanno mostrato tutti i limiti dell’Unione Europea, alimentando una crisi di fiducia nei suoi confronti. Una crisi di fiducia sia di input sia di output, come direbbero gli scienziati sociali. Input: perché le procedure decisionali appaiono lontane e poco democratiche, sganciate da una vera discussione politica a livello europeo. Output: perché le politiche europee che derivano da quelle procedure non danno risposte visibili ai problemi dei cittadini. Come discutono Clementi e Fabbrini, gran parte di questi limiti sono ascrivibili alla prevalenza del metodo intergovernativo su quello comunitario, anche in presenza di scelte che invece richiederebbero che a livello europeo si sviluppasse una dialettica democratica simile a quella che avviene all’interno di ogni paese: con visioni del mondo e piattaforme distinte sui temi che ci accomunano. Ciò ha causato “lo svuotamento delle democrazie nazionali, senza che questo portasse a una dialettica politica sovranazionale”. I casi della politica economica e di quella migratoria sono lampanti. E mostrano non solo il deficit istituzionale dell’Europa, ma anche l’incapacità delle sue leadership politiche di capire la portata di problemi comuni la cui soluzione non può che arrivare da risposte comuni. Prendiamo l’esempio della politica economica. La risposta macroeconomica alla Grande Recessione da parte dei paesi europei è stata tardiva e inefficace.
Come discutono Selma Mahfouz e Jean Pisani-Ferry nel loro “À qui la faute?”, mentre gli Stati Uniti hanno continuato una politica fiscale espansiva dal 2009 al 2012, nella testa dei leader europei, già nell’ottobre del 2009 al vertice di Goteborg, c’è solo il tema del consolidamento fiscale, cioè di come rientrare dai deficit creati da politiche espansive prese in maniera frettolosa e scarsamente coordinata per rispondere alla crisi finanziaria innescata dal fallimento di Lehman. Al G20 di Toronto della primavera del 2010, la divisione è plastica: Obama parla di crescita e fragilità della ripresa, la Merkel solo dei rischi legati a un eccesso di indebitamento pubblico. Come racconta Carmelo Cedrone nel suo “Dentro l’Europa”, riflettendo sulla sua esperienza nel Comitato economico e sociale europeo in rappresentanza del sindacato, durante gli anni della crisi, non solo non si poteva parlare di eurobond, ma anche la parola “crescita” era un tabù nei documenti ufficiali, come se quella mera invocazione fosse un cedimento al lassismo dei paesi indebitati del Sud Europa. Al punto che nel vertice europeo del dicembre 2012 la parola crescita scompare misteriosamente dal documento finale nel silenzio generalizzato. Certo, la politica monetaria farà la sua parte, ma si dovrà attendere l’estate del 2012 con il “whatever it takes” di Mario Draghi. Quanto tempo perso nel frattempo. E il mancato coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale continuerà a produrre effetti negativi.
Invece di usare i margini di flessibilità esistenti per fare politiche anti-cicliche di fronte a una crisi eccezionale, l’Unione Europea si è preoccupata solo di inasprire un sistema sempre più barocco di regole fiscali: Six-Pack nel settembre 2010, Two-Pack nel novembre 2011, Fiscal compact nel dicembre 2011. In due anni, le regole sulla disciplina di bilancio sono passate da meno di 30 a più di 120 pagine, con l’aggiunta di indicatori statistici, come il famigerato output gap, alla cui stima – sempre difficile e discrezionale – si sono finite per affidare le tasse e i servizi dei cittadini europei. Risultato: la morte della politica. È solo quando i buoi sono scappati che si prova a chiudere la stalla con clausole di flessibilità negoziata tra singoli paesi e Unione Europea, anche su spinta del governo italiano presieduto da Matteo Renzi. Anche in patria, qualcuno rispolvera lo stereotipo dell’Italietta innamorata della spesa in disavanzo, ma quella battaglia per una maggiore flessibilità serviva a tutta l’Europa. E l’Italia non aveva niente di cui vergognarsi: prima di chiedere quelle clausole, il nostro Paese aveva iniziato uno sforzo di riforme strutturali, inanellato una sequenza record di avanzi primari e dimezzando le procedure d’infrazione.
A nessuno sfuggiva (o sfugge) che la crescita potenziale dipende dalle riforme, dagli investimenti (in primis in capitale umano) e dall’aggiustamento strutturale del nostro tessuto produttivo. Ma ciò non toglie che in certi frangenti servano politiche congiunturali in grado di dare ossigeno a famiglie e imprese. Come nel caso della morte di Mark Twain, la notizia sulla fine delle fluttuazioni economiche, sbandierata da alcuni negli anni ’90, era a dir poco esagerata. Nessuno proponeva di fare politiche pro-cicliche, ma di riappropriarsi di politiche anti-cicliche senza le quali la ripresa rischiava di rallentare e le riforme di impantanarsi. Come poi è avvenuto. Per carità, come spiegano Galasso e Tabellini, l’incapacità dell’Italia di usare la leva del deficit per contrastare la recessione nasceva più dal nostro enorme debito pubblico che dalle regole europee. La colpa era da cercare all’interno dei nostri confini e nelle politiche sbagliate del passato. Altri paesi, senza il fardello del debito, le regole fiscali le hanno violate senza traumi. Ma ciò non toglie che quel sistema barocco di regole e, soprattutto, la leadership collettiva dell’Europa abbiano rallentato l’uscita dalla crisi. Gli errori di valutazione dei politici europei hanno riguardato due elementi: (1) la convinzione che la ripresa fosse già ripartita e non ci fosse bisogno di mantenere politiche espansive un po’ più a lungo; (2) la sottostima degli effetti recessivi del consolidamento.
Quando i muri invisibili delle disuguaglianze dividono persone e territori, generi e generazioni, c’è poco da stupirsi se prima o poi ha la meglio chi i muri vuole costruirli davvero, fermando il cambiamento e dando un effimero senso di protezione.
L’illusione del controllo: l’ascesa e le fregature dei sovranisti
I limiti della politica economica e sociale dell’Europa non abbracciano solo le politiche congiunturali e l’uscita dalla Grande Recessione, ma anche le riforme strutturali in grado di governare la globalizzazione facendosi carico di chi ne rimane ai margini. Il tema di come governare la globalizzazione, per compensarne i “perdenti”, ci accompagna da decenni nei nostri convegni. E non è un tema solo europeo, basti pensare all’ascesa di Trump negli Stati Uniti. Ma dall’Unione Europea ci si aspettava qualcosa di più, in virtù del suo modello sociale e del fatto che rappresenta un’esperienza unica di governo sovranazionale. Negli scorsi decenni, le disuguaglianze tra paesi si sono ridotte e milioni di persone sono uscite dalla miseria in tutto il mondo, anche – se non soprattutto – grazie alla globalizzazione. Ma i contraccolpi sulle disuguaglianze interne ai paesi sviluppati sono stati palpabili e mal governati. La distribuzione del reddito è diventata meno egualitaria, con l’1 percento che sta in alto sempre più ricco e il 50 percento che sta in basso sempre più povero. Oggi nel mondo ci sono 8 individui che detengono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone più povere. Sono aumentate le disparità nell’istruzione, nelle opportunità sociali, nei benefici a cui si accede in base all’impresa o al territorio in cui si lavora. La classe media è entrata in una spirale di aspettative decrescenti per un mercato del lavoro sempre più polarizzato tra lavori appaganti e lavori sottopagati. Si è creato un “Quinto Stato” di persone esposte all’incertezza, privo di tutele pubbliche e sindacali, senza un’agenda politica, “straniero a casa sua” per mancanza di riconoscimento sociale. E la crescita di questo Quinto Stato, non a caso, è stata accompagnata da un aumento dei profitti da monopolio, o da scarsa concorrenza, e da una forte riduzione della quota di Pil destinata al fattore lavoro.
Quando i muri invisibili delle disuguaglianze dividono persone e territori, generi e generazioni, c’è poco da stupirsi se prima o poi ha la meglio chi i muri vuole costruirli davvero, fermando il cambiamento e dando un effimero senso di protezione. Gli economisti usano un termine un po’ asettico per descrivere gli effetti collaterali di un cambiamento che nonostante tutto può restare a somma positiva: “costi di aggiustamento”. Se il capitale e il lavoro si spostano da un settore all’altro, da un paese all’altro, possono restare disoccupati per un certo periodo di tempo. E questi costi di aggiustamento possono ricadere su specifiche zone geografiche o gruppi della popolazione. Per dare risposte politiche convincenti, servono due passaggi: capire quali (e quanto grandi) sono i costi di aggiustamento; chiederci se (e come) possiamo compensare chi li subisce in prima persona. Perché l’opposizione al cambiamento da parte di chi ne subisce i costi sulla propria pelle è non solo comprensibile ma legittima. Spetta alla politica creare le condizioni per rimuovere questa opposizione. E questo vale per il commercio internazionale come per le altre trasformazioni strutturali dell’economia, a partire dal progresso tecnologico.
Una vecchia canzone di lavoro cantata nell’Ottocento dai lavoratori afroamericani degli Stati Uniti (divenuta in seguito una ballata blues e anche un pezzo jazz, come ci racconta Arrigo Polillo) parla della storia di John Henry, un erculeo lavoratore occupato nella costruzione del Big Bend Tunnel. L’ingenuo e generoso John lancia una sfida alla perforatrice pneumatica, introdotta da poco, nella convinzione che non avrebbe mai potuto soppiantare un uomo con buoni muscoli. Si illudeva, ovviamente, e la sfida nella gara con la macchina lo vede soccombere. Ebbene, con tutta la buona volontà della politica, è davvero difficile pensare di andare a dire al John Henry di turno che lui non è altro che un costo di aggiustamento, e che il nostro aiuto nei suoi confronti passerà attraverso la formazione, la riqualificazione e le riforme strutturali. Se non siamo in grado di far toccare con mano queste promesse, al povero John non resta che un’alternativa: andare a sbattere la testa nella sfida impossibile contro la trasformazione strutturale della società e dell’economia. Non è un caso se, come ricostruisce Gianmarco Ottaviano nella sua Geografia economica dell’Europa sovranista, il voto ai partiti sovranisti o populisti si concentra laddove ci si aspetta che siano più forti i costi di aggiustamento imposti dal cambiamento dell’economia.
In Italia, la politica del governo giallo-verde è fatta di sola spesa corrente, finanziata con nuovi debiti o risorse fasulle perché coperte da futuri aumenti delle tasse che si dice di voler poi cancellare, per distribuire soldi a pioggia o tutelare i soliti noti del welfare all’italiana
Molti studi mostrano come il voto a favore della Brexit abbia prevalso nelle circoscrizioni con livelli d’istruzione più bassi, maggiore tradizione manifatturiera, salari più bassi e disoccupazione più alta, maggiore crescita dell’immigrazione (soprattutto dall’Est Europa), maggiori tagli ai servizi della sanità pubblica. Anche i perdenti, nel loro piccolo e come le formiche, s’incazzano. E così è avvenuto. Di fronte a questi problemi, i sovranisti non hanno soluzioni, se non illusorie. Lo si vede una volta che prendono il potere e si confrontano con la responsabilità di governare. Ci dicono: fermate il mondo, vogliamo scendere. Ma non si sa per andare dove. Come se non bastasse, non sono neanche in grado di costruire alleanze politiche all’interno dell’Europa per almeno provare a realizzare le finte soluzioni che propongono. Con buona pace del riprendersi il controllo: con loro non si vede neanche l’ombra di qualche forma di controllo. Del caos aperto dal referendum sulla Brexit abbiamo detto. Ma il caso italiano è istruttivo perché si tratta del primo grande paese fondatore dell’Unione Europea in cui governano due forze che hanno fatto una campagna elettorale apertamente contro l’euro, salvo palleggiare a centrocampo con dichiarazioni neutre e fintamente responsabili una volta andate al governo.
In Italia, la politica del governo giallo-verde è fatta di sola spesa corrente, finanziata con nuovi debiti o risorse fasulle perché coperte da futuri aumenti delle tasse che si dice di voler poi cancellare, per distribuire soldi a pioggia o tutelare i soliti noti del welfare all’italiana (elargendo, per di più solo in via temporanea, pensioni anticipate anche a chi non è in difficoltà e indipendentemente dall’invecchiamento della popolazione). Niente di niente sul lavoro, sulla crescita, sugli investimenti, sulla natalità, sulla non-autosufficienza, sui veri invisibili del nostro stato sociale. Ma il problema non sono solo le priorità sbagliate. Le scelte che la maggioranza di governo sta scrivendo non più sulla sabbia dei programmi elettorali, ma sulla pietra dei diritti acquisiti, lasciano spazio solo a tre scenari possibili: (1) aumentare le tasse dal 2020 per un volume maggiore di quanto fatto dal governo Monti in condizioni di emergenza finanziaria e, ancora una volta, con l’economia in recessione; (2) rimangiarsi le promesse e tagliare già dal prossimo anno gli interventi fatti o annunciati da 5 Stelle e Lega; (3) uscire dall’euro. Quarto non è dato. Non è un caso che gli esponenti intellettualmente più onesti della maggioranza facciano fatica a nascondere l’unico, vero, orizzonte che sta dietro a questo bluff: recuperare la sovranità monetaria. Uscire dall’euro è l’unica follia che può dare un senso a una politica economica che un senso non ce l’ha. Non solo per riportare la sovranità monetaria da Francoforte a Roma, ma per rimetterla nelle mani della politica, senza quella fastidiosa indipendenza di cui gode la Banca d’Italia dopo il “divorzio” dal Tesoro avvenuto nel 1981. Cambiamento sì, ma con lo sguardo rivolto al passato. Un passato i cui danni pesano ancora come un macigno sulla nostra economia e sulle generazioni future. Come se l’uscita dall’euro non mettesse pesantemente a rischio i risparmi e i salari degli italiani. Come se, euro o non euro, potesse esserci un futuro per un paese che spende più in interessi sul debito che asili. Con buona pace, di nuovo, del riprendersi il controllo: se la politica non torna a prendersi cura del futuro, il futuro continuerà a fare paura.
Le alleanze all’interno dell’Europa, dicevamo. Anche su questo le fregature dei sovranisti cominciano a essere evidenti. Salvini può convincere il premier ungherese Orban a farsi qualche selfie con lui lungo il muro che sta costruendo con tanto di filo spinato, rievocando spettri tristi e pericolosi che speravamo l’Europa si fosse lasciata alle spalle per sempre, ma non lo convincerà mai a farsi carico di una politica migratoria comune, senza la quale un paese come l’Italia sarà sempre esposto a shock difficili da controllare. Può fare campagna elettorale con l’estrema destra tedesca o con quella austriaca, ma non le convincerà mai a farsi carico di una politica di bilancio comune, senza la quale un paese con il debito pubblico dell’Italia sarà sempre esposto a shock finanziari. I sovranisti dell’Est Europa sono stati chiari: ci interessano i fondi strutturali e le vostre fabbriche, ma non i problemi in comune che abbiamo. I sovranisti del Nord Europa sono stati altrettanto chiari: ci interessano i vostri consumatori, ma non intendiamo farci carico di un’Italia indebitata e stagnante, patria di pigroni che chiedendo ai nostri elettori di pagare il conto della loro irresponsabilità. Per la serie: c’è sempre un nordista più al Nord di te che ti dà del “terrone”. È inutile girarci intorno. I sovranisti non sono capaci di costruire una nuova Europa. Possono soltanto distruggerla.
La proposta è quella di creare un’Unione sociale che radichi la cittadinanza europea in uno zoccolo duro di diritti sociali. Passare dall’attuale pilastro sociale a un’Unione sociale non è mero formalismo, perché in questi casi la forma è sostanza e si nutre dei necessari strumenti istituzionali.
Rivoluzione Europa: subito e con chi ci sta.
Essere franchi sui limiti e sugli errori dell’Unione Europea non vuol dire dipingerla come un fallimento o, peggio ancora, farne il capro espiatorio di problemi globali dei quali non ha colpa. Per dirla con Ludovico Geymonat, la severità di giudizio è sempre più appuntita verso le cose che ci sono più care. Ed è un bene che sia così, se ci spinge a prendercene cura. Oggi amare l’Europa vuol dire cambiarla. Partendo dalle tante conquiste europee, che non sono solo – e dico poco – la pace in un continente devastato da due conflitti mondiali soltanto nel secolo scorso, la moneta, il mercato unico, gli scambi culturali e i passi avanti sulle politiche di coesione: dall’ambiente alla cooperazione per lo sviluppo, dalla tutela della concorrenza alla privacy, l’Unione Europea ha tanto da insegnare al resto del mondo. Allo stesso tempo, essere altrettanto franchi sul vicolo cieco in cui ci stanno conducendo i sovranisti al potere non vuol dire illudersi che lasceranno presto il campo politico e tutto tornerà come prima. Serve un big bang in grado di rilanciare la costruzione europea, per riavvicinarla ai suoi cittadini e agli ideali dei suoi padri fondatori. Le leve di questa rivoluzione per noi sono le proposte contenute nei quattro capitoli di questo libro: (1) sdoppiamento istituzionale, (2) Unione fiscale, (3) Unione sociale, (4) politica industriale.
Sdoppiamento istituzionale
Il capitolo di Clementi e Fabbrini dimostra che sono le istituzioni europee che devono cambiare, non solo le politiche europee, checché ne dicano molti
conservatori dello status quo che ancora si annidano a Bruxelles e non solo. Il metodo intergovernativo applicato a problemi che in buona parte hanno una
componente comune non funziona, prigioniero com’è delle distorsioni e della volatilità delle competizioni elettorali nazionali che si susseguono ogni anno nei
paesi europei. Come scrivono, “l’Unione è giunta a un punto di svolta storica”, che deve “consentire a chi vuole o ha bisogno di creare un’unione sempre più
stretta di fare passi in avanti e, allo stesso tempo, garantire che tutti partecipino al mercato unico (a condizione che rispettino i criteri dello stato di diritto)”. Non
si tratta di creare un club sportivo a cui tutti si iscrivono e poi alcuni giocano a calcetto e altri a tennis: anche l’integrazione differenziata per singole materie
non ci porterebbe da nessuna parte, creando ancora più confusione istituzionale e allontanando i processi decisionali dalla vita delle persone. Serve un nuovo patto
politico, chiaro e solenne, con chi ci sta. Preservando (ed eventualmente allargando) il mercato unico e consentendo che si formi al suo interno un gruppo
ristretto di paesi pronti a dar vita a un’unione federale.Non stiamo parlando di creare né un super Stato europeo né un’associazione di stati europei, ma un’unione federale che costruisca una nuova sovranità su un nucleo forte ma circoscritto di problemi comuni, lasciando alla sovranità nazionale tutto il resto (sì, perché ci sono alcuni temi di cui adesso si occupa l’Unione Europea che possono tranquillamente tornare alla gestione dei singoli stati). Al centro dell’unione federale dovrebbe crearsi uno spazio politico e di discussione pubblica genuinamente europeo. Servono – anche se Clementi e Fabbrini non si spingono fino a lì – un Presidente eletto dai cittadini europei, un Parlamento che legifera e strumenti di partecipazione permanenti. Per arrivare a tanto, serve chiarezza su alcuni punti istituzionali: l’unione federale si fa con chi ci sta, senza poteri di veto, e creando nuove istituzioni. E serve chiarezza su alcuni punti politici: se la Germania è terrorizzata dagli elementi redistributivi che potrebbero sorgere in un’unione federale, non andiamo da nessuna parte. È sempre Fabbrini, sul Sole 24 Ore del 28 aprile 2019, a metterci in guarda dal rischio di un ritorno della “questione tedesca”, dal rischio che in un mondo che sta diventando nazionalista anche la Germania finisca per diventare tale. Non mancano segnali preoccupanti. Da questo punto di vista, il vero elettore mediano di una nuova idea d’Europa parla tedesco e c’è da lavorare perché faccia le scelte giuste.
Unione fiscale
Il capitolo di Galasso e Tabellini va al cuore dei limiti della politica economica europea negli anni della crisi: l’assenza di una politica fiscale comune capace di
accompagnare la politica monetaria in maniera forte e coordinata. Per questo serve una politica di bilancio a gestione europea che completi l’Unione monetaria con un’Unione fiscale per gestire la domanda aggregata, partendo proprio dai paesi dell’Eurozona pronti a compiere questo passo. Si tratta di creare una vera e propria istituzione politica di livello europeo che sia in grado di emettere bond per gestire la domanda aggregata nel caso di crisi economiche e per intervenire nel caso di crisi finanziarie o sovrane sistemiche, usando come garanzia flussi futuri di gettito fiscale ceduti dai paesi aderenti. Anche in questo caso, si tratta concretamente di costruire una nuova sovranità, affidandola a una politica europea che superi la logica intergovernativa. Come spiegano Galasso e Tabellini, sarebbero soprattutto i paesi come l’Italia a trarre benefici da questo meccanismo, per il semplice fatto che il nostro debito pubblico e la perdita del ricorso a svalutazioni competitive ci rendono non solo particolarmente vulnerabili a crisi finanziarie, ma incapaci di azionare le necessarie leve congiunturali quando siamo colpiti da una recessione economica. Proprio per questo, però, la loro raccomandazione politica è altrettanto precisa: per convincere i paesi del Nord Europa a creare un’Unione fiscale, l’Italia deve ridurre il suo debito pubblico, abbassando il livello di rischio sistemico, e intraprendere riforme strutturali, aumentando la sua competitività. Non esistono scorciatoie.Unione sociale
Il capitolo di Ferrera e Leonardi fa un passo ulteriore verso un’unione ancora più stretta. La proposta è quella di creare un’Unione sociale che radichi la cittadinanza europea in uno zoccolo duro di diritti sociali. Passare dall’attuale pilastro sociale a un’Unione sociale non è mero formalismo, perché in questi casi la forma è sostanza e si nutre dei necessari strumenti istituzionali. Come scrivono, “l’esperienza delle federazioni storiche insegna che la creazione di mercati unici e unioni monetarie deve essere integrata da alcuni corollari sociali con funzioni di stabilizzazione sistemica, a sua volta presupposto di adeguati livelli di legittimazione politica”. Non si tratta di creare uno stato sociale federale, ma un’unione tra stati sociali, molto diversi tra loro, in modo da aiutarli nell’assicurare protezione ai propri cittadini e promuovere nello stesso tempo “un certo grado di solidarietà paneuropea”. Tra le proposte che avanzano per sostanziare questo zoccolo duro di diritti e programmi sociali, ne ricordo due di particolare portata: uno schema europeo di assicurazione contro la disoccupazione e una Children Union per il contrasto alla povertà educativa. Presente e futuro. In particolare, un sussidio europeo per la disoccupazione avrebbe due meriti: uno macroeconomico e uno politico. Rispetto al primo, si creerebbe un meccanismo di stabilizzazione automatica, finanziato con risorse comuni, in grado di assorbire shock che colpiscono in maniera diversa paesi diversi. E lo si farebbe con uno strumento che, a differenza di altri che sono stati proposti, non creerebbe un trasferimento permanente di risorse dai paesi del Nord verso quelli periferici, per il semplice fatto che le dinamiche del mercato del lavoro, nel corso del tempo, hanno mostrato andamenti diversi in entrambe le direzioni nelle due aree. Il secondo vantaggio sarebbe politico. Di fronte all’avanzata dei partiti sovranisti, fare in modo che i disoccupati europei ricevano un assegno firmato dalla nuova Unione rafforzerebbe il consenso intorno a una nuova idea d’Europa. Su un punto dobbiamo essere chiari, però. Il progetto di un’Unione sociale comporta anche un certo grado di redistribuzione di rischi e risorse tra cittadini europei. Su questo punto non possiamo essere ambigui. È legittimo che la signora Schulz abbia paura che parte delle sue tasse possano aiutare il signor Rossi quando perde il lavoro, ma senza la condivisione di alcuni rischi l’Europa muore. Anche nella costruzione dello stato sociale nazionale, la redistribuzione non è stata un processo semplice, con linee di frattura che hanno attraversato il movimento operaio e le forze politiche socialiste, popolari o liberali. In Italia, c’era chi la redistribuzione la voleva solo al Nord, chi solo per gli operai. Adesso è il momento di fare la stessa scelta a livello europeo. Non possiamo più nascondere la testa nella sabbia.
I paesi europei potrebbero adottare subito una misura unilaterale in chiave antielusiva: una “minimum tax” sugli utili prodotti dalle multinazionali estere. Questa proposta può essere riassunta in questo modo: la multinazionale continua a determinare il suo imponibile e pagare le imposte secondo le regole ordinarie
Una parentesi su fisco, concorrenza e ambiente.
Tra parentesi, anche se questo libro non si occupa direttamente di fiscalità, c’è da notare che la difesa del modello sociale europeo e qualsiasi passo in avanti verso elementi redistributivi non può fare a meno di un fisco a misura di ventunesimo secolo. Tanto per iniziare, i paesi europei dovrebbero smetterla di fare competizione fiscale aggressiva tra loro, armonizzando le proprie basi imponibili. E dovrebbero essere più aggressivi in tema di tassazione delle imprese multinazionali. Quando cambia radicalmente il mondo del lavoro e della tecnologia, dobbiamo cambiare anche come si tassa. Oggi, in proporzione, paga meno tasse Bill Gates di chi assembla i computer per lui. L’anno scorso il cantante Ed Sheeran ha versato più soldi al fisco britannico di Starbucks e Amazon. Non ha senso. In un’economia sempre più immateriale non è accettabile che anche la base imponibile sia immateriale, perché chi ha potere economico la sposta da qualche altra parte. Il progetto Beps (Base erosion and profit shifting) dell’Ocse e del G20 ha frenato le pratiche più opportunistiche di pianificazione fiscale internazionale. Ma non possiamo nasconderci dietro le difficoltà che esistono nel determinare la connessione tra utili e territorio: è arrivato il momento di fare qualcosa, se necessario anche in via unilaterale a livello europeo. Se aspettiamo il treno degli accordi multilaterali, rischiamo di perdere quello dell’equità. I paesi europei potrebbe adottare subito una misura unilaterale in chiave antielusiva: una “minimum tax” sugli utili prodotti dalle multinazionali estere. Questa proposta può essere riassunta in questo modo: la multinazionale continua a determinare il suo imponibile e pagare le imposte secondo le regole ordinarie. Tuttavia, questo risultato andrà confrontato con il peso di determinati indicatori, quali per esempio beni, forza lavoro e fatturato in un paese europeo rispetto a quelli nel resto del mondo. In altre parole, se il 10 percento del fatturato-forza lavoro-beni del gruppo si trova in quel paese, allora almeno il 10 percento degli utili dovranno essere dichiarati lì. Se il gruppo lo ha già fatto sulla base delle regole ordinarie, nessun problema. In caso contrario, scatta il meccanismo di rideterminazione (con eventuale credito per le imposte pagate all’estero su quel reddito) che riporta nei paesi europei quanto prodotto a casa loro.
La stessa determinazione che l’Europa sta mostrando nella difesa della concorrenza (senza sudditanze psicologiche verso i giganti dell’economia digitale) e nella tutela del pianeta (contrastando l’involuzione degli Stati Uniti di Trump in materia di riscaldamento climatico e difesa del pianeta), dovrebbe tirarla fuori in tema di fiscalità internazionale. Fisco, concorrenza, ambiente: ecco tre temi sui quali l’Europa può prendersi la leadership per creare un’economia mondiale più forte e più giusta.
Politica industriale.
Il capitolo di Firpo e Montanino argomenta che, se l’Europa ambisce a una qualche forma di leadership industriale nel futuro, “non può prescindere da un vero mercato unico integrato, soprattutto nel campo del digitale, dell’energia e dei capitali”. L’Europa sta perdendo il treno dell’innovazione. La classifica delle multinazionali più innovative è dominata da colossi statunitensi o asiatici. Senza un mercato ampio e un “ecosistema denso” (fatto di università di eccellenza, canali di trasferimento tecnologico, regole che favoriscano l’assunzione del rischio, capitale umano di qualità e capitali pubblici e privati che si dirigano in maniera forte verso gli impieghi più produttivi) è impensabile che anche le imprese di successo possano espandersi rapidamente e reggere la competizione internazionale. Le imprese europee non possono essere lasciate sole in uno scenario di competizione globale sempre più aggressiva e muscolare, dove anche gli stati devono fare la loro parte pur tenendosi alla larga da politiche protezionistiche.
Firpo e Montanino indicano due macro ambiti in cui l’Europa può dispiegare la sua leadership: “quello della decarbonizzazione e della transizione energetica verso processi di produzione circolari e ancor più sostenibili sotto il profilo ambientale, che l’Europa ha scelto di percorrere in maniera assai più decisa di molti altri paesi”; e “quello della rivoluzione tecnologica e di una trasformazione digitale del manifatturiero foriera di maggiore efficienza, di crescente servitizzazione e di nuovi modelli di business a misura di un consumatore sempre più centrale e interconnesso, su cui l’Europa sembra scontare un ritardo maggiore rispetto ai giganti high tech americani e asiatici”. Allo stesso tempo, la loro proposta per una politica industriale europea non nasconde la necessità di un’azione strategica: “costruire una strategia ambiziosa per il rilancio della competitività dell’industria europea a partire dall’individuazione di catene del valore strategiche”. Di nuovo, potenziando strumenti di governance comunitaria a livello europeo per non restare impantanati nelle tensioni e nello stallo del metodo intergovernativo.
Il tempo della politica.
Le proposte contenute in questo libro hanno bisogno di scelte immediate. Domani potrebbe essere troppo tardi per salvare la costruzione europea. E hanno bisogno della politica. Di alleanze politiche e sociali per disegnare un mondo nuovo. Gli anti-sovranisti ripetono spesso che serve una coalizione ampia “da Macron a Tsipras”, ma di che cosa parlano esattamente? Un’armata Brancaleone soltanto “contro” i sovranisti e non “per” un’idea di Europa non avrebbe nessuna possibilità di successo. Queste forze sono pronte a trovare un terreno comune nelle proposte di cui sopra o in altre parimenti rivoluzionarie? E le forze europeiste in Italia sono pronte a fare la loro parte? Quasi incredibilmente, anche dopo anni di crisi di fiducia verso tutte le istituzioni nazionali ed europee, il 45 percento degli italiani continua a ritenere che, tutto considerato, l’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea sia “una cosa positiva” (contro il 24 percento di chi la considera “una cosa negativa” e il 24 percento di chi risponde né l’una né l’altra). Il numero di chi la valuta positivamente sale all’87 percento tra gli elettori del Partito democratico e di Più Europa e si attesta sul 68 percento tra gli elettori che non sanno per chi votare. Possibile che, partendo da questi numeri, nessuno sia in grado di trasformare in politica una nuova idea di Europa? Facendo capire agli italiani che, per un paese col nostro debito pubblico e con la sua collocazione geografica nel cuore del Mediterraneo, questa nuova idea di Europa è prima di tutto una questione vitale di interesse nazionale. Al momento questo scatto non si vede. Così come non si vede la consapevolezza dell’urgenza delle scelte di cui abbiamo bisogno. Le classi dirigenti europee, di fronte alla spavalderia dei sovranisti, sembrano afone e inerti.
Nel 2011, in un libro collettivo sulle riforme utili per l’Italia, mi è capitato di rispolverare la descrizione delle classi dirigenti di una democrazia in crisi fatta da Ignazio Silone, per bocca di Tommaso il Cinico, nel suo bellissimo libro “La scuola dei dittatori”. È una descrizione che, purtroppo, si attaglia bene anche alle leadership politiche dell’Europa: “Una classe dirigente in declino vive di mezze misure, giorno per giorno, e rinvia sempre all’indomani l’esame delle questioni scottanti. Costretta a prendere decisioni, essa nomina commissioni e sottocommissioni, le quali terminano i loro lavori quando la situazione è già cambiata. Arrivare in ritardo significa chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Significa anche illudersi di evitare le responsabilità, lavarsene le mani, per mostrarle bianche e pure agli storici futuri. Il colmo dell’arte di governo per i democratici dei paesi in crisi sembra consistere nell’incassare degli schiaffi per non ricevere dei calci, nel sopportare il minor male, nell’escogitare sempre nuovi compromessi per attenuare i contrasti e tentare di conciliare l’inconciliabile”. Sembra la cronaca degli ultimi anni, anche in Europa. Ma non è un destino ineluttabile, se la politica tornerà a fare il suo mestiere. Cari europei, sveglia. Riprendiamoci il controllo.