Aiutiamoci a casa nostraLa lezione danese: immigrazione e crescita vanno a braccetto (e la sinistra dovrebbe ricordarselo)

Il partito dei socialdemocratici ha vinto le ultime elezioni in Danimarca (anche) grazie ad una linea severa sull’immigrazione. Una posizione giustificata, che ha fatto presa sui cittadini: i flussi migratori non devono sconvolgere il tessuto sociale, e integrazione e welfare sono collegati

Philip Davali / Ritzau Scanpix / AFP

Per capire come la sinistra affronta le sfide emerse negli ultimi decenni, dalla globalizzazione fino al fenomeno migratorio, è opportuno osservare cosa accade negli altri Paesi. Lo scorso 5 giugno si è votato in Danimarca per rinnovare il Parlamento. I socialdemocratici hanno ottenuto il 25,9% dei voti, superando i liberali fermi al 23,4%. Come riporta Il Post, in realtà il partito guidato da Mette Frederiksen ha perso dei voti, passando dai 924mila di quattro anni fa ai circa 914mila attuali. Il Partito Popolare danese, Dansk Folkeparti, è invece sceso dal 21% circa dei voti del 2015 all’8,7% attuale ed è la terza forza politica del Paese. In base all’analisi dei flussi elettorali, il 23% dei voti del DF sarebbe andato proprio ai socialdemocratici. Molti hanno spiegato questo risultato con la posizione assunta sul fenomeno migratorio. Come sostanzialmente affermato dal politologo Cas Mudde su The Nation, i socialdemocratici hanno adottato un’agenda severa nei confronti dell’immigrazione, molto di più delle formazioni politiche di altri Paesi.

Basti pensare al sostegno alle politiche governative, volte a favorire l’integrazione e a ridurre la criminalità in zone abitate in prevalenza da non occidentali e che contengono misure ritenute discriminatorie dalle minoranze etniche. Dal canto loro i socialdemocratici si sono giustificati dicendo che questa linea è stata adottata per permettere la sopravvivenza dello stato sociale a sostegno di tutta la popolazione. È giusto quindi spiegare il loro successo soltanto con la posizione assunta sull’immigrazione? Evidentemente no.

Il programma dei socialdemocratici ruotava non solo intorno all’immigrazione, ma molto anche intorno ai temi economici dove le rivendicazioni di sinistra sono ricomparse tutte

Le principali preoccupazioni dei danesi emerse dai sondaggi pre-elettorali citati ancora da Il Post, vedono la tutela dell’ambiente e la situazione economica prima della gestione del fenomeno migratorio e non sorprende quindi che, rispetto a quattro anni fa, abbiano visto aumentare il proprio consenso la sinistra radicale e il partito radicale socialista. Tuttavia, questi fattori sono tutti tasselli di un medesimo puzzle. Il programma dei socialdemocratici ruotava infatti non solo intorno all’immigrazione, ma molto anche intorno ai temi economici dove le rivendicazioni di sinistra sono ricomparse tutte, dalla critica ai tagli al welfare fino alla tutela dei diritti dei lavoratori e alla lotta alle disuguaglianze. Da questo punto di vista la posizione assunta nei confronti dell’immigrazione non appare un controsenso per un partito di sinistra e una spiegazione arriva dall’economista e docente Paul Collier su NewStatesman.

Mette Frederiksen, a suo dire, è partita da un obiettivo ben preciso, ricreare un’appartenenza condivisa, dal momento che sapere che vi sono credenze e impegni reciproci ha contribuito nel tempo a creare non solo un’abitudine ma anche un’identità comune. La socialdemocrazia si è mantenuta in questo modo ma la globalizzazione e l’immigrazione hanno sfidato questo schema, ecco perché temi economici e migratori vanno considerati insieme.

Per affrontare le preoccupazioni della popolazione e dei lavoratori in particolare, il tema dell’immigrazione e quindi dell’integrazione non poteva essere ignorato

Negli ultimi decenni l’espansione delle città, il declino della provincia, la richiesta di lavori qualificati e i flussi migratori hanno stravolto il tessuto sociale facendo perdere la consapevolezza di una comune appartenenza. Gli immigrati, anche quando ottengono la cittadinanza, non assumono in maniera diretta e automatica una nuova identità e come conseguenza, viene a mancare quella reciprocità da cui scaturiva la tacita fiducia su cui la società stessa si fondava.

Collier scrive che Matte Frederiksen ha compreso la necessità di recuperare questa dimensione e l’ha fatto affrontando il tema economico da un lato e quello dell’immigrazione dall’altro, perché consapevole dei timori della popolazione, a cominciare da quelli della classe operaia che non a caso stava guardando con interesse ad altre formazioni politiche. Per affrontare il problema, ha costruito un programma politico pragmatico e ha provato a ricercare una comune identità, partendo dalla nazione, non solo perché è l’ambito entro il quale possono essere aumentate le entrate fiscali necessarie per finanziare il welfare, ma anche perché è lo spazio nel quale sono immediatamente visibili obblighi e rivendicazioni reciproche.

Per affrontare le preoccupazioni della popolazione e dei lavoratori in particolare, il tema dell’immigrazione e quindi dell’integrazione non poteva essere ignorato. L’accettazione dell’identità condivisa da parte degli immigrati ovviamente comporta l’accettazione di obblighi e credenze comuni e tuttavia non preclude il mantenimento di altre identità. È davvero questo l’approccio della futura socialdemocrazia? È troppo presto per dirlo ma per Collier la strada è sempre meno quella dei diritti individuali e sempre più quella della riscoperta di un’identità condivisa, sebbene con un atteggiamento meno teorico e più pragmatico.