“Remember what the dormouse said
Feed your head, feed your head”
White Rabbit, Jefferson Airplane
Possibile?
Possibile iniziare una riflessione sui cinquant’anni di Woodstock… dalle parole di un ghiro (dormouse) che parla nel sonno… e non dai due angeli maledetti volati via l’anno dopo il concerto, Janis Joplin con la sua voce lacerante, Jimi Hendrix con una chitarra capace di reinventare l’inno americano… o dagli spasmi di Joe Cocker, la protesta dolce di Joan Baez o quella sarcastica di Country Joe McDonald, i virtuosismi furiosi di Alvin Lee (Ten Years After) alla chitarra e Michael Shrive (Santana) all’epoca ventenne alla batteria, la consacrazione del sound West Coast con Crosby, Stills e Nash?
Sì, perché sono le parole di quel ghiro ad aiutare a capire che quella tre giorni “di pace, amore e musica” di mezzo secolo fa è stata molto più di una colossale celebrazione dello spirito libertario degli anni Sessanta, di un gigantesco happening musicale. Una autentica pietra miliare per la cultura occidentale, groviglio di emozioni e contraddizioni così intrigante che se dipanato offre spunti preziosi per capire non solo quell’epoca, ma pure la nostra.
Su quel palco con i Jefferson Airplane, Grace Slick portò l’inno del rock psichedelico. “White Rabbit” rimanda all’atmosfera onirica di Alice nel Paese delle Meraviglie. Ma le due pillole “una ti fa più grande, l’altra ti fa più piccolo… mentre quella della mamma non fa alcun effetto” suggerivano ovviamente una rivolta generazionale dal sapore lisergico. È a quel bizzarro tavolo del tè che assieme ad Alice, Bianconiglio e il Cappellaio Matto, siede quello strano animale che parla nel sonno e ripete: “alimenta la tua testa, alimenta la tua testa…”.
Difficile oggi non collegare quelle due pillole a quelle che Neo si vede offrire da Morfeus in Matrix: quella azzurra farà dimenticare tutto, con quella rossa “vedrai quant’è profonda la tana del Bianconiglio”…
Woodstock fu quasi un miracolo: mezzo milione di ragazzi capaci di convivere pacificamente con spirito di collaborazione, condividendo tutto (droghe comprese), e senza apparenti misure di sicurezza in un evento completamente sfuggito di mano agli organizzatori
Consapevolezza o oblio? “Feed your head”, alimenta la tua testa, era in sintonia con quell’”Allargare la coscienza” che all’epoca era quasi sinonimo di uso di droghe. Con uno psicologo cacciato da Harvard, Timothy Leary, profeta del culto dell’Lsd, che in una (sfortunata) campagna elettorale propose pure di diffondere a San Francisco direttamente nell’acquedotto…
Woodstock fu quasi un miracolo: mezzo milione di ragazzi capaci di convivere pacificamente con spirito di collaborazione, condividendo tutto (droghe comprese), e senza apparenti misure di sicurezza in un evento completamente sfuggito di mano agli organizzatori che avrebbe potuto degenerare in chissà quali disastri. Quel “mezzo miracolo” lo colsero appieno i reporter su posto, litigando con direttori e caporedattori che dalle loro scrivanie avrebbero voluto reportage “di denuncia” del caos, dei disagi, dei colossali ingorghi.
Woodstock fu la realizzazione del sogno della Summer of Love. E contemporaneamente la fine, di quel sogno. Tre mesi dopo, il tentativo di replicarlo con il concerto di Altamont si trasformò in un incubo, immortalato dalle cineprese: i Rolling Stones terrorizzati dall’atmosfera di violenza, prigionieri sul palco circondati da volti stravolti dall’uso di droga, persino un omicidio in diretta, quello di uno studente di Berkeley che pure lui strafatto aveva impugnato una pistola davanti al palco, subito bloccato e pugnalato a morte dagli Hell’s Angels cui era stato sciaguratamente appaltato il servizio d’ordine.
In quegli stessi giorni, l’America fu sconvolta dalla scoperta che la serie di delitti terribili e inspiegabili a Bel Air, Los Angeles, commessi pochi giorni prima di Woodstock, non erano stati opera di criminali incalliti ma di ragazzine completamente soggiogate psicologicamente e sessualmente da un piccolo guru di una setta di quella stessa controcultura che predicava l’amore, che in un folle delirio l’aveva trasformata in macchina di morte. Quentin Tarantino, che ha ricordato quegli orrori nel suo recente “Once Upon a Time… in Hollywood” si è detto affascinato da quell’icona del Male, Charles Manson, che profetizzava un’imminente Apocalisse, mai avvenuta anche se gli anni Settanta, tra violenza e droga, fecero a pezzi i ricordi della Summer of Love.
Non occorre scomodare Steve Jobs e i suoi trascorsi hippie per ricordare che Silicon Valley è in buona parte figlia di quella tensione ideale della controcultura californiana
Ma è l’aspetto più inquietante di quella stagione, incarnato da Manson, che si proietta pure ai giorni nostri: come il confine fra sogno e incubo possa diventare così sottile da dissolversi. Ancora una volta è stata la musica a raccontarlo al meglio. Formatisi due anni dopo Woodstock, in un capolavoro di metafore come “Hotel California” gli Eagles hanno evocato quella stagione con l’avventura inquietante di un viaggiatore che si ferma in un albergo dall’atmosfera magica, le voci che rimbalzano nei corridoi: “Benvenuto all’Hotel California, che bel posto, che belle facce…” e scopre pian piano di non poter più andarsene da quel posto accogliente ma sempre più allucinato, “siamo solo prigionieri dei nostri stessi espedienti” . E il cameriere che alla sua richiesta di vino risponde “non abbiamo più quello spirito, dal 1969” allude proprio a Woodstock, il grande successo che proiettando il rock nello star system a Los Angeles gli fece perdere l’anima delle origini.
Che la rincorsa all’Utopia possa risolversi in un incubo è tema di bruciante attualità. Non occorre scomodare Steve Jobs e i suoi trascorsi hippie per ricordare che Silicon Valley è in buona parte figlia di quella tensione ideale della controcultura californiana, l’ambizione di superare i limiti e “Allargare la coscienza” proprio attraverso la tecnologia e non la droga.
“Dimenticate le proteste contro la guerra, Woodstock e persino i capelli lunghi. La vera eredità della generazione anni Sessanta è la rivoluzione del computer”, scrisse in un memorabile articolo del 1995 su Time Stewart Brand, la figura chiave dell’incrocio fra controcultura e tecnologia, ideatore di quella pubblicazione di culto, sorta di “Internet su carta prima che esistesse Internet” che fu The Whole Earth Catalog, da cui Jobs trasse il celebre motto “Stay Hungry, Stay Foolish”. E al titolo di quell’articolo ci siamo ispirati, con Alessio Mazzolotti alla regia, per portare in scena il nostro “Dobbiamo tutto agli Hippie. Alle radici della New Economy”. Ricordando anche questo: le tecnologie ispirate da un sogno libertario possono diventare strumento di chi la libertà vuole arginarla.
L’aveva anticipato nel 2013 David Eggers, autore di culto di San Francisco nel suo The Circle, sullo schermo nel 2017 in un film con Tom Hanks: l’utopia di un’unica grande comunità aperta può degenerare in un’orribile sistema di controllo e manipolazione.
Oggi purtroppo non è più fantascienza ma quanto sta accadendo, minando le stesse basi della democrazia in una concentrazione di potere, con un onnipotente oligopolio che controlla i dati. Non è un caso che per ricostruire la vicenda forse più spaventosa di strategia di manipolazione di massa, lo scandalo della società britannica Cambridge Analytica che proietta ombre sinistre sul ruolo svolto da Facebook, The Great Hack. Privacy violata, lo straordinario documentario di Jehane Noujaim e Karim Amer prodotto da Netflix si apra con le immagini dell’evento di culto di quella controcultura, il folle raduno annuale di Burning Man nel deserto del Nevada (il prossimo 25 agosto), in cui si mescolano trasgressione, edonismo, eccentricità, che molti dei protagonisti di Silicon Valley frequentano assiduamente.
“Allargare la coscienza” oggi vuol dire soprattutto consapevolezza, leggere la complessità e i suoi intrecci. Come quello tra controcultura e hi tech. Come avevano fatto già nel 2005 Enrico Beltramini, col suo bellissimo Hippie.com. E John Malkoff, giornalista del New York Times. Che per raccontare come la controcultura anni Sessanta abbia plasmato l’industria del personal computer aveva scelto come titolo: “What the Dormuouse Said”.