Ha provocato la prima crisi diplomatica tra Italia e Francia dalla seconda guerra mondiale, causando il ritiro dell’ambasciatore francese a Roma. Ha offerto l’uso della piattaforma Rousseau ai gilet gialli negli stessi giorni in cui alcuni di loro demolivano l’ingresso di un edificio governativo a Parigi. Non pago, ha incontrato Christophe Chalencon, il leader più estremista dei gilet gialli che ha detto di essere «pronto a intervenire con dei paramilitari» per far cadere il governo francese. Per rimediare ha inviato una lettera a Le Monde in cui ha definito la Francia un Paese con una «tradizione democratica millenaria». In un incontro ufficiale a Shanghai ha chiamato «presidente Ping» il segretario del partito comunista cinese Xi Jinping, confondendo il cognome (che viene prima) con il nome. Un po’ come se avesse chiamato Giuseppe Conte, “Peppuccio”.
Nel 2016 ha detto che il dittatore cileno Augusto Pinochet era venezuelano e che la Russia è un Paese del Mediterraneo. A febbraio del 2015 ha scritto su Facebook che le aziende giapponesi «Scippano i nostri migliori gioielli di famiglia. In Italia invece per restare nell’Euro e fare contenta la Merkel, Renzi svende tutto pur di saziare le banche europee», mentre chiedeva di firmare una petizione per uscire dalla moneta unica. A maggio dello stesso anno ha detto che «è ora di preferire gli italiani alle imposizioni della Merkel».
Leggetelo tutto d’un fiato perché questo è il curriculum di gaffe ed errori politici grossolani del prossimo ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il più giovane di sempre della storia repubblicana italiana.
Come Angelino Alfano nel 2016, il capo politico del M5S ha barattato il suo peso politico in una coalizione innaturale in cambio della Farnesina per godersi il suo ultimo giro di giostra politica. Logorato dall’esperienza del governo gialloverde, commissariato da Beppe Grillo durante la crisi di governo, con il Movimento crollato nei sondaggi, Di Maio sa che dopo il 2022 si chiuderà la sua esperienza politica ad alto livello.
E se il curriculum non riempie la mezza pagina, quale miglior ministero per stringere mani importanti, crearsi una rubrica internazionale e sfruttare le conoscenze per un’avventura in Europa o la presidenza di qualche fondazione in futuro? Voleva il ministero della Difesa, ma secondo fonti parlamentari Sergio Mattarella avrebbe messo il veto. Fosse vero, lo capiremmo. È un ruolo troppo strategico per lasciarlo a un trentatreenne che ha attaccato i leader di Francia e Germania. E mentre tutti gli alleati della Nato concordavano nel cacciare il dittatore venezuelano Nicolas Maduro ha imposto al governo di non riconoscere Juan Guaidò, lasciando l’Italia isolata in un limbo.
Per non parlare del memorandum firmato con la Cina per la nuova Via della Seta che ha irritato non poco gli Stati Uniti d’America, o le aperture verso la Russia e Iran. Ma allora perché Di Maio è stato mandato alla Farnesina? La risposta è dentro di voi. Chiudete gli occhi e pensate al nome dell’attuale ministro degli Esteri. Non vi viene? Non siete gli unici. Solo gli addetti ai lavori conoscono il pensiero politico di Enzo Moavero Milanesi che in 14 mesi ha avuto il merito di ricucire gli strappi politici dei sovranisti senza fare mai notizia.
La Farnesina serve più per la carriera politica di chi ci lavora pro tempore che per il destino dell’Italia. Franco Frattini, Massimo D’Alema, Emma Bonino, Federica Mogherini e Paolo Gentiloni non hanno mai avuto le responsabilità politiche del ministro degli Esteri russi Sergej Lavrov o il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, ma hanno tutti migliorato il loro prestigio internazionale. Per dirne due: Mogherini è diventata Alto rappresentante della Commissione europea, Gentiloni è candidato per far parte della squadra della Von der Leyen. Anche un politico molto vicino a Di Maio come Vincenzo Scotti è stato per un mese ministro degli Esteri e per anni sottosegretario alla Farnesina. Siamo sicuri che avrà fatto notare al capo politico M5S tutti i vantaggi della posizione.
Sembra un paradosso ma la politica estera in Italia la fa più il Quirinale, un potere di garanzia, che la Farnesina. Perché la nostra collocazione internazionale è all’interno del patto Atlantico e dentro l’Unione europea. Da qui non si scappa. E per fortuna. Chi ha provato a mettere i piedi in due staffe tra Mosca e Washington, come Matteo Salvini si è ritrovato fuori dal governo nel giro di pochi mesi. Chi ha capito subito il ruolo dell’Italia in Europa e nel G7 è passato da avvocato del popolo a statista. E chi ha attaccato per tutta la sua vita Bruxelles, l’euro e le cancellerie internazionali si è adeguato nel giro di pochi giorni passando con agilità dal governo giallorosso a quello gialloverde. Di Maio sbaglierà un congiuntivo, chiamerà Trump “Boris” e avrà bisogno del traduttore per l’inglese. Ma la sensazione è che farà meno danni di quanto si pensi.
Sono altri i ministri strategici piazzati dal presidente della Repubblica nel Governo. Due nomi su tutti: Roberto Gualtieri all’Economia e Lorenzo Guerini alla Difesa. Non a caso entrambi del Partito democratico, uno dei pochi partiti italiani che non ha mai messo in dubbio il suo atlantismo ed europeismo. Certo, non è tutto positivo. Di Maio ha solo 33 anni e ha dimostrato di essere impulsivo nel gestire i rapporti internazionali. Usa la sciabola dove serve il fioretto, ma la politica estera è fatta di uomini e stanze.
Il rischio è quello di non avere la credibilità per toccare palla in dossier importanti come la situazione in Libia, la guerra dei dazi con la Cina o i rapporti con Russia e Iran. «L’attenzione verso l’Africa, il tema delle migrazioni e le relazioni con le nuove economie emergenti saranno le linee guida su cui costruirò il mio lavoro» ha scritto Di Maio ieri su Facebook. Vasto programma avrebbe detto l’ex presidente della Repubblica francese Charles De Gaulle, ma almeno non ha dichiarato guerra alla Francia. Un passo avanti per chi ha definito fino a ieri le Ong il “taxi del mare” per i migranti. Si nasce incendiari, si muore pompieri alla Farnesina.