A periodi alterni il dibattito politico del nostro Paese rende baricentrica la questione fiscale. In campo ci sono due scuole di pensiero. La prima – più ispirata all’austerità dei paesi nordici – predica una modernizzazione fiscale che ci porti a un rapporto con il fisco meno discrezionale ed essenzialmente affidato alla tecnologia. Le proposte di questa scuola di pensiero si fondano sulla moneta elettronica per recuperare il gettito indiretto e sui sostituti d’imposta per quello diretto.
La seconda scuola di pensiero, che potremmo definire più elasticamente mediterranea, predica una diminuzione delle aliquote nella tassazione diretta del reddito (il suo cavallo di battaglia è la flat tax) e un largo uso degli strumenti di “redenzione” (mai definiti condoni, ma quello sono) per recuperare flussi incagliati di gettito. In entrambe le scuole di pensiero vi è ragionevolezza analitica, ma – soprattutto nella prima – la riflessione tecnica deborda in uno sciagurato utilizzo ideologico della questione.
Invece quando si parla di fisco una cosa dovrebbe essere chiara a tutti: l’unico elemento che conta è la pressione fiscale del Paese, cioè il rapporto tra quanto viene complessivamente versato in termini di tasse e contributi e il Prodotto interno lordo. Solo questo è il dato rilevante, il resto sono chiacchiere buone per i salotti televisivi. L’attuale pressione fiscale italiana si è attestata, nel 2018, sul 41,8% (-0,4% rispetto al 2017) e, da ormai un trentennio, oscilla tra il 39% e il 44%.
Si tratta di un livello piuttosto alto, considerando che la media Ocse è intorno al 34%. Se è vero che la Francia guida la classifica dei paesi tartassati con il 48,4% (ed è da qui che arrivano i gilet gialli), è anche vero che un nostro riferimento di civiltà, gli Stati Uniti, restano strutturalmente sotto questo livello di almeno 20 punti.
“Pagare meno, pagare tutti”, alla luce dei numeri, resta solo uno slogan propagandistico
Un’esperienza ormai largamente comprovata dice che, in Italia, oltre una soglia collocata intorno al 44/45% si mettono in moto non solo i tanto deprecati e illegali meccanismi dell’evasione fiscale, ma anche le ineliminabili (e legalissime) prassi di elusione fiscale, delocalizzazione produttiva e riduzione volontaria dell’attività lavorativa.
Queste considerazioni dovrebbero essere sufficienti a eliminare dal discorso la tanto dibattuta questione dell’evasione. Se sommassimo il gettito evaso a quello raccolto giungeremmo a una pressione fiscale ben oltre il 50%, un dato assolutamente ipotetico perché già molto prima si mettono in moto i sopracitati meccanismi di riequilibrio del gettito.
Forse il tema dell’evasione potrebbe essere collegato alla questione perequativa, ma anche in questo caso la discussione dovrebbe essere meno demagogica e superficiale. “Pagare meno, pagare tutti”, alla luce dei numeri, resta solo uno slogan propagandistico, visto che la tassazione indiretta viene pagata da tutti in ogni gesto di consumo e quella sul reddito viene direttamente pagata (con larghi margini di benevola autoriduzione) solo da imprese e autonomi. I lavori dipendenti e i pensionati, infatti, non conoscono nella loro vita il faticoso e irritante sforzo di pagare un F24 con il proprio conto corrente. Per loro la tassazione è un fatto a monte che non li riguarda direttamente e, soprattutto, grava su altri portafogli. Se fossero veramente soldi loro, infatti, perché mai la riduzione del cuneo fiscale dovrebbe andare anche a beneficio delle imprese?
Insomma, sulla questione fiscale occorrerebbero meno bolle emotive e balle statistiche. Ciò che conta veramente è la tolleranza verso la pressione fiscale complessiva. Per ottenerla anche a percentuali più alte delle attuali non serve la Guardia di Finanza, ma un agire razionale che, nel caso specifico, suggerirebbe di muoversi attraverso le due strategie politicamente meno dannose: raccogliere gettito dalla meno percepibile tassazione indiretta e da opportune finestre di condono aperte sulla “cattiva coscienza” degli italiani. Se Salvini prende tanti voti, non è per la sua muscolatura d’argilla verso i profughi, ma perché il sentiment fiscale del Paese lo ha capito molto meglio rispetto dei suoi avversari.