In una scuola della periferia romana, un ragazzo con le braccia tappezzate di motti latini abborda l’insegnante di storia e le dice con aria di sfida: «Scommetto che neanche lei ci parlerà delle foibe». Casca male, il pischello: non solo la prof ne parlerà a lezione, ma ci scriverà pure un libro. Perché la storia delle foibe, Silvia dai Pra’ la porta incisa nel sangue. Il suo bisnonno è morto così, buttato in una di quelle voragini carsiche, a Vines in Istria il 5 ottobre 1943, dai partigiani di Tito. Perché italiano? Perché fascista? Cos’aveva fatto Romeo Martini (in origine Martincich), anni 41, commerciante, per meritare una fine tanto orrenda? Di quale crimine si era macchiato? O i suoi carnefici erano soltanto incanagliti dall’invidia sociale, perché col negozio di alimentari guadagnava più della media e si poteva permettere di regalare alla moglie un anello e le scarpine di vernice?
Il padre di Silvia, nipote dell’infoibato, è un comunista tutto d’un pezzo, che tiene sopra il letto il santino del Che e disprezza le serie tv americane. I rapporti con la madre istriana, la nonna Jole, profuga e anticomunista viscerale, non sono ovviamente idilliaci. Per completare il quadro, l’altro ramo della famiglia, quello materno, è fortemente radicato nella Resistenza toscana, e al circolo della Fgci di Massa, dove è iscritta da piccola, Silvia si sente martellare che la storia delle foibe è una bieca “operazione revisionista”. Ce n’è abbastanza per fare dieci anni di analisi. Ma anche per sentire l’urgenza di tornare sulle tracce del bisnonno e di indagare su quel crimine slavo-comunista del ’43 e quella morte di cui nessuno in casa vuole parlare.
Adesso il libro è uscito per Laterza, con il titolo Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria: il resoconto di un sofferto pellegrinaggio nella memoria familiare e in quella nazionale del nostro dopoguerra. Sofferto e anche frustrante, perché l’autrice raccoglie più che altro silenzi e amnesie. Ma non si dà per vinta. Fruga negli archivi, bazzica nei bar di paese e nei cimiteri, tampina i pochi sopravvissuti, rintraccia lontani parenti (quelli che sua nonna raccomandava di «non salutare»). Addentrandosi nel groviglio infernale dell’Istria di quegli anni, una catena di occupazioni e di soprusi, di rappresaglie e di stragi, scoprirà tanti cognomi italiani tra i partigiani caduti per mano dei nazi-fascisti e qualche non-fascista (o antifascista) tra gli italiani gettati nelle foibe dai partigiani. E a un certo punto si ritroverà seduta sotto la targa che ricorda l’assassino di suo bisnonno, il compagno Mate Stemberga detto “caballero”, celebrato come un eroe dal regime di Tito.
Il presidente Mattarella non si stanca di ripetere che non esistono memorie divisive. Che la sola divisione ammissibile è quella tra verità e menzogna, tra vittime e carnefici
Senza mancare di rispetto a nessuno, le foibe sono un po’ la Bibbiano della vulgata storiografica. Da almeno vent’anni, ogni volta che uno menziona i Lager nazisti, salta su qualcun altro a dire: «E allora le foibe?». Quasi che si trattasse di due orrori uguali e contrari che si elidono a vicenda, relativizzando la portata dell’Olocausto. Quasi che lo sterminio lucidamente pianificato di sei milioni di ebrei inermi si potesse mettere sullo stesso piano di un capitolo, per quanto atroce, di una guerra di frontiera combattuta con pari ferocia da entrambe le parti. Silvia dai Pra’ riesce a dissotterrare una verità storica controversa, che le attirerà gli odi delle opposte tifoserie, nostalgici del ventennio e militanti della vecchia sinistra. Non nega e non sminuisce i massacri, tenta di ricostruire i fatti sovvertendo “le equazioni facili amate dai totalitarismi”. Si inchina davanti ai corpi martoriati senza chiedere che tessera avessero in tasca, strappandoli alle grinfie di chi li sbandiera come feticci da comizio. Si riappropria di una memoria “divisiva” (perfino all’interno della sua famiglia) per restituircela “condivisa”. Una bella lezione per chi considera “divisive” le pietre d’inciampo in memoria dei deportati o le manifestazioni del 25 aprile, e domani, chissà, anche le formelle per i morti di Piazza Fontana (non si sa mai, potrebbero urtare la sensibilità di quel gentiluomo padovano col maglione a girocollo, noto editore e già opinionista di Libero).
Il presidente Mattarella non si stanca di ripetere che non esistono memorie divisive. Che la sola divisione ammissibile è quella tra verità e menzogna, tra vittime e carnefici. Le piazze delle Sardine senza simboli di partito, la sfilata bipartisan dei sindaci a sostegno di Liliana Segre, la composta celebrazione del cinquantenario di Piazza Fontana, dimostrano che una parte del paese ha recepito il messaggio. Ma ce n’è un’altra, forse maggioritaria, che continua a sguazzare nella palude dell’odio.
E qui ci vorrebbe un bell’esame di coscienza collettivo. Come ha scritto Francesco Cundari a proposito del “populismo delle élite”, siamo noi ad aver creato il mostro. Noi giornalisti. E mi ci metto anch’io, perché ho vissuto quella stagione in ruoli non secondari. Ricordate? Correvano gli anni Novanta del secolo scorso, e la parola d’ordine nelle redazioni era diventata “controversialità”. Non c’era notizia che si potesse pubblicare senza un controcanto o un ventaglio di opinioni. Imbastivamo polemiche su tutto, da Heidegger ad Alba Parietti. E poi la contabilità degli stermini, ne ha ammazzati più Stalin o Hitler? Lo sputtanamento di Bobbio. I libri di Pansa. I vari Veneziani e Buttafuoco coccolati in ogni salotto, a sfoggiare il loro “anti antifascismo chic” come un’innocua posa modaiola, un po’ vintage e un po’ dadaista. Ed eccoci qui, con la storia ridotta a cori da stadio, a caciara sui social, ai tweet che inneggiano a Hitler e ai fotomontaggi con Soros e Marx sotto la stella di David. La pornostoria che piace al senatore Elio Lannutti, ma che è assurta a dignità accademica all’ateneo di Siena. A proposito, non si potrebbe sgomberare quella cattedra e darla a una brava come Silvia dai Pra’?