Sto sciando sulle Alpi svizzere, non lontano da Davos, proprio nei giorni in cui al World Economic Forum i potenti della terra, scesi dai loro jet privati, discutono di ambiente e subiscono senza reagire le cazziate di Greta (a parte Trump, che reagisce cazziandola a sua volta). Ho parcheggiato la mia crossover a benzina euro6 e salgo in seggiovia con una coppia di lombardi, dall’accento sembrano bergamaschi. La ragazza indica una casetta in pietra, poco più in alto: «E quella, che roba è?», chiede al compagno. «Una stalla, non vedi?». Gridolino di stupore: «Maddai! Credevo fosse un rifugio». «Ma no, lì d’estate ci portano le mucche e le capre. Anche quella baita lassù, e quell’altra sulla destra sono stalle». Lei è sempre più incredula: «Come è possibile, che se ne fanno di tutte queste stalle?». Non riesce a capacitarsi che in montagna ci siano costruzioni destinate a usi diversi dall’intrattenimento degli sciatori. Chissà se ha mai visto una mucca: probabilmente si meraviglierà che non abbia i cingoli come i gatti delle nevi. Non capisce che se le valli svizzere sono così belle, è merito delle stalle e degli alpeggi, non certo degli impianti di risalita. Perché sono abitate da contadini e pastori veri, non solo da albergatori e maestri di sci.
C’è un artista contemporaneo, Gianluca Di Pasquale, che dipinge folle di sciatori su fondo bianco, come fantocci colorati che galleggiano nel vuoto. La montagna, nei suoi quadri, è uno spazio totalmente antropizzato, dove la natura diventa invisibile: è lo sguardo del turista medio, che ormai vede nell’ambiente alpino niente più che un parco giochi, un “non luogo” senza identità.
Lo sci come sport di massa è stata una delle grandi rivoluzioni della modernità, paragonabile al volo, alla ferrovia e all’automobile. Una esperienza di vita senza precedenti che ha sovvertito il rapporto tra uomo e montagna, una sintesi inedita di velocità e contemplazione della natura, di paesaggio e tecnologia. Essendo nato nella prima metà del secolo scorso, io ho imparato a usare gli sci ai tempi di Toni Sailer e delle Olimpiadi di Cortina, le prime, quelle in bianco e nero del 1956: e pur restando uno sciatore accanito anche nell’era dei carving e della neve programmata, ogni tanto rimpiango le piste battute dagli alpini e piene di cunette, gli scarponi unti di grasso e le giacche a vento senza imbottitura, quando papà ci metteva la Gazzetta del Popolo sulla pancia per ripararci dall’aria e soffiava dentro le muffole per scaldarci le mani congelate. Anche se so benissimo che quella montagna incantata era un privilegio per pochi, alla nostalgia è difficile resistere, specialmente a una certa età.
Confesso che il sovranismo alla boscaiola di Mauro Corona, con la sua retorica del buon tempo andato, mi fa sinceramente orrore. Apprezzo invece Paolo Cognetti come scrittore (mi ha commosso il romanzo con cui ha vinto lo Strega, Le otto montagne) e anche come persona: una volta mi ha proposto di andare a camminare con lui, ma temo che non riuscirei a tenere il suo passo. Noi sciatori, per Paolo, siamo dei barbari stupratori della natura, lui preferisce la montagna primitiva, tutta stambecchi e baite con stufa a legna. E quando mi capita un tipo come la signora del «Maddai!» sarei tentato di dargli ragione.
Poi però guardo i pensionati, miei coetanei o giù di lì, che affollano le cabinovie nei giorni feriali: veterani del sistema retributivo, martiri della Fornero e più freschi virgulti di quota 100, ognuno coi suoi bravi sci a spatola che curvano da soli, il piumino Northface, ginocchiere e guanti elettroriscaldati e cintura Gibaud sotto la tuta. Se non ci fossero i moderni mezzi di risalita, non sarebbero certo in grado di arrampicarsi con le pelli di foca o di scendere in neve fresca come ai tempi dei pionieri. Hanno bisogno di piste ben tracciate e levigate, larghe come autostrade a quattro corsie. La montagna di Cognetti è suggestiva ma elitaria, proprio come quella degli anni Cinquanta che ogni tanto rimpiango. È anche un po’ darwiniana: fatta su misura per una stirpe giovane e palestrata, senza problemi di artrosi o di circolazione. Confinerebbe gli anziani nelle passeggiate a fondo valle, o peggio nel salotto di casa davanti alla tv o a Facebook, o a sbronzarsi nella vineria di quartiere, condannandoli alla gotta e al diabete. Anche a me piacciono le valli segrete e silenziose, dove incontri solo cervi e marmotte. Ma mi piacciono anche le funivie, e mi piacciono perfino (Cognetti si tenga forte) i cannoni sparaneve, con quelle eliche luccicanti come i biplani di Marinetti.
Greta e Paolo mi diranno: ok, boomer! Ma non essere egoista, pensa alle generazioni future. Giusto. E allora facciamo un Green Deal, o meglio un White Deal: io mi impegno a ridurre le emissioni, mi muoverò di più in treno, dove è possibile anche per raggiungere i campi da sci, e passerò all’auto elettrica il giorno che Mister Musk si degnerà di abbassare i prezzi. In cambio, voi lasciatemi le mie funivie. Ai pensionati potete (anzi dovete) togliere quota 100, ma non Quota 3000. Almeno fintantoché il global warming non si sarà mangiato l’ultimo lembo di neve.