L’emergenza coronavirus potrebbe azzerare la crescita economica della Cina nel primo trimestre di quest’anno. Sarebbe il primo calo dal 1976, anno in cui è stata decretata la fine della “Rivoluzione culturale proletaria” e l’inizio delle riforme e apertura ai mercati esteri, alla liberalizzazione e alle privatizzazioni. Secondo l’Ufficio nazionale di statistica, nel bimestre gennaio-febbraio, dopo il blocco delle attività produttive attuato per fermare il contagio, il tonfo è stato del 13,5 per cento, contro attese di +1,5 per cento e il +6,9 per cento di dicembre. I timori dei consumatori e degli investitori legati al coronavirus, da circa una settimana, potrebbero tuttavia registrare un’inversione di marcia. Il 13 marzo infatti il governo di Xi Jinping ha contato “solo” otto nuovi casi di contagio, il dato più basso dall’inizio delle statistiche sull’epidemia.
L’allerta rimane alta, anche se le autorità cinesi hanno scelto di dare un segnale forte ai mercati: riapriranno infatti i 42 store della Apple in Cina, mentre la Toyota riprenderà la produzione nel suo maggiore stabilimento a Guangzhou,, entro la settimana. «L’Italia sta adottando pressapoco lo stesso modello di contenimento cinese, anche se le conseguenza in termini economici saranno molto diverse», spiega a Linkiesta Alberto Forchielli, imprenditore ed esperto di economia cinese. «A livello commerciale, man mano che le persone usciranno dalla quarantena, il ciclo produttivo ricomincerà a girare. Basta permettere ai lavoratori cinesi di spostarsi dal centro alla costa e il lavoro potrà riprendere: il che non è così facile, anzi. La ripresa sarà lunga, ma credo che già da metà aprile si potrà vedere la loro rinascita».
L’effetto del coronavirus, inoltre, si è fatto sentire anche sugli investimenti: in Cina hanno subito un tracollo del 24,5 per cento nei primi due mesi dell’anno, circa 330 miliardi di yuan (50 miliardi di dollari), contro il +5,4 per cento registrato nell’intero 2019 e il rialzo del 2,8 per cento atteso di mercati. Il vice ministro dell’Industria Xin Guobin ha dichiarato che il tasso di ripresa del lavoro al di fuori della provincia di Hubei, epicentro dell’epidemia, è di circa il 60 per cento per le piccole e medie imprese e oltre il 95 per cento per le grandi aziende. Un primo passo fondamentale, ma l’export è sceso del 17,2 per cento (il maggior calo dal febbraio dell’anno scorso, quando il problema erano i dazi). «È difficile che il Paese possa ripartire alla stessa velocità di prima, perché dovrà fare a meno della voce “export”. Nella crescita mondiale si sentirà questo fattore: solo quando la produzione della Cina ricomincerà a lavorare, l’economia globale avrà la spinta decisiva», continua Forchielli. «La Cina sarà avvantaggiata nel dopo virus nella misura in cui noi coglioni non pensiamo a tutto quello che abbiamo passato. Crediamo alla loro propaganda e nel frattempo accogliamo le 31 tonnellate di materiale medicale che paghiamo comunque a caro prezzo. Paradossalmente sta succedendo proprio questo: prima la Cina ci ha avvelenato e ora ci salva», commenta ancora l’imprenditore.
Il blocco della “fabbrica del mondo” ha posto un ulteriore quesito: siamo di fronte alla fine della globalizzazione? «Non siamo arrivati al punto di una deglobalizzazione. Questo shock, piuttosto, ci farà capire che non possiamo tenere tutte le uova nello stesso paniere e per quanto si delocalizzi non bisogna farlo tutti nella stessa direzione. Sopratutto non si deve farlo in Cina. Anche per questo ci sarà una tendenza a uscire dalla Cina e nello spezzettare l’offshoring in molti più paesi».
È corretto quindi affidarsi al modello cinese per supererà l’emergenza coronavirus? «In termini di tecnologia certamente. Il tracciamento che è avvenuto a Singapore per contenere e identificare i contagiati è frutto sì di una tecnologia all’avanguardia, ma anche di una cultura della popolazione stessa. L’Italia si trova di fronte a entrambi gli scogli: la mancanza di implementazione tecnologica e le persone disposte ad applicare questo tipo di misure», spiega Forchielli.
Il primo ministro cinese, Li Keqiang, ha sottolineato che è necessario in questa fase stabilizzare l’occupazione come principale priorità, in modo da non creare dei sacchi di disoccupazione troppo rilevanti. La Pboc, la banca centrale di Pechino, ha annunciato di aver iniettato sul mercato 100 miliardi di yuan (circa 14,3 miliardi di dollari). Allo stesso tempo la città di Nanjing, Cina orientale, per rilanciare i consumi sta per distribuire dei voucher ai cittadini per un valore di 318 milioni di yuan (45 milioni di dollari).
Tra i provvedimenti per le aziende ci sono poi la sospensione o lo slittamento del pagamento delle imposte e di affitti, accordi con le banche per un aumento dei prestiti, tassi più bassi e dilazione di rate. Sarà sufficiente quindi, considerando le dovute proporzioni demografiche, quanto previsto fin qui dal governo italiano? «L’Italia deve stare attenta a non spender troppo. Di fronte alle spese abbiamo anche un notevole calo degli introiti fiscali. Si fa presto a spendere, poi però i minori incassi vanno finanziati. Prima di stabilire quanto e come bisogna spendere, vorrei capire quanto sono minori le entrate e superiori le spese, perché dubito che si possa finanziare una buco di 25 miliardi senza un enorme innalzamento dello spread. Il rischio è di passare dal virus al default o alla patrimoniale», conclude Forchielli.