Fabio Tammaro è un cuoco napoletano trapiantato a Verona, dove gestisce con caparbietà e sapienza un ristorante di pesce che prova a portare il sapore del mare nella città di Giulietta. Si racconta sui social network in maniera inconsueta e – spesso – irriverente, svelando le pieghe nascoste della ristorazione e usando questi strumenti per mettere in luce gli aspetti meno conosciuti e più autentici. Come tutti i colleghi, dopo un momento di stop e di riflessione, parte con un nuovo progetto che cambia il paradigma del classico delivery e trova una chiave di volta che potrebbe assurgere a modello imprenditoriale. Ma svela anche quanto è complesso gestire questo momento per chi vive di ristorazione senza avere alle spalle gruppi o finanziatori forti.
«Chi pensa che il mercato del delivery sia più semplice di quello classico della ristorazione, purtroppo sbaglia. Ho scritto “purtroppo” perché probabilmente anche io ho fatto questo errore di valutazione. Forse lo era prima del COVID, ma non ne sono sicuro. Sicuramente oggi, adesso, è un settore del tutto nuovo e altamente insidioso, pur trattandosi di una cosa sempre esistita. E già qui c’ è il primo paradosso: cucinare per le persone che mangiano a casa propria è difficile. È difficile perché non si può fare pieno affidamento sul fattore emozionale: nessuna salsina da versare al tavolo, nessun sorriso mentre si porta il piatto, nessuna cottura al tavolo e neanche un racconto per spiegare l’ idea di quel piatto.
E se le cose vanno male? Neanche la possibilità di rimediare con un dolce offerto o un cospicuo sconto a fine pasto. Idem se le cose vanno bene: nessuna mancia e nessuna bevuta offerta con tanto di chiacchierata. Tutto maledettamente freddo ed emarginato al puro scopo. Far arrivare un proprio piatto a casa, così, senza “preliminari”, è quasi violento. Un gesto forte che ci ricorda la prima regola del cibo: nutrire. Le persone a casa sono giustamente stanche, svogliate, annoiate. Arrivare con la propria idea di ristorazione o, semplicemente, col proprio cibo nell’unità abitativa altrui, è un gesto di estrema fiducia che comporta una responsabilità enorme. Ma sia chiaro: è difficile. Si gioca fuori casa, e da fuori, dal mondo, arriva in casa un freddo pacchetto con dentro del cibo. Possiamo chiamarlo come vogliamo, “magic boxe”, “love pack” ma a destinazione diventa, semplicemente, cibo. E allora, si mette da parte la poesia e si pensa alla concretezza. Mentre la rete continua a scannarsi tra ristoranti stellati che fanno delivery e panzarotterie abusive che fatturano milioni di euro a nero, c’ è un’esigenza. L’ esigenza alla normalità.»
Come hai pensato di superare la crisi?
«Ho creato Sfritto (il claim è Terron street food, ndr). Si tratta di un progetto satellite, è un “virtual Brand”: un posto che fiscalmente non esiste perché adopera la stessa ragione sociale del mio ristorante, l’Officina dei Sapori. Mi permetterà di acquisire una fetta di mercato che mi manca: la medio-bassa. Sarà una sorta di friggitoria volante, un’offerta di cibo che punta a saziare lo spirito e la voglia di trasgredire. Il vero porno food, semplice, intuitivo, alla portata di tutti È proprio questo il punto. Il fritto è quel classico prodotto che nessuno fa a casa e che difficilmente ordina al ristorante. Nonostante sia tanto godurioso ha tantissime difficoltà logistiche. Piace a tutti, è sempre buono (se fatto bene) e appaga. Il delivery la farà da padrone almeno per tutto il 2020 e non possiamo aspettare la Madonna che scende e ci da là grazia. Proporremo non solo pesce, anzi, quasi del tutto escluso, per questo l’ho distaccato come nome e grafica dall’Officina dei sapori, per ricercare una clientela più semplice. Faremo fritto di calamari e due o tre cuzzetielli (panini napoletani), oltre a proporre una piccola selezione di birre artigianali. Scontrino medio sui 12/18 euro. Per questo progetto integreremo il servizio consegna anche oltre città con rider nostri.»
Come vedi il futuro?
«Il futuro è ancora incerto ma abbiamo disperato bisogno di aumentare il nostro raggio d’azione, poiché anche dopo la riapertura, secondo me, non sarà semplicissimo far venire gente. L’obiettivo è quello di tenere il progetto anche dopo l’emergenza e magari tramutarlo in una piattaforma. Una volta che partirà Sfritto nascerà anche finalmente l’altro “virtual brand” che è “officina del crudo” a cui sto lavorando da un anno: solo asporto di pesce crudo pulito e pronto da mangiare. Stessa ideologia: solo delivery, però di fascia alta. In modo che L’ Officina sia solo ristorante, quando tornerà ad essere tale. Con la speranza che ci permettano di riaprire quanto prima, dandoci una mano, perché sarà durissima. Di certo non riprenderemo da dove abbiamo lasciato: dovremmo modificare tante cose, dagli orari al menù, dai turni al lavoro.»
Qual è la strategia dietro a questi nuovi brand?
«Con questa strategia punto ad arrivare a target e bisogni differenti senza uscire dal mio focus-madre. Non tutti avrebbero creato brand differenti, ma avrebbero solamente detto “facciamo anche….”, perdendo secondo me identità e coerenza. Speriamo che tutti questi conigli dal cilindro portino alle giuste gratificazioni. Per ora, avanti tutta, finché si può!»
Ti manca la vita di prima?
«Appena si è presentata l’occasione, mi sono buttato a capofitto in questa nuova, e ripeto, nuova attività. Perché mi sembra che molti si illudano ancora di tornare alla vita di prima. Tanti pensano che sia un periodo. Periodo di cosa?! A me sinceramente non manca la vita di prima così come non sono felice di questa. Mi sento in un limbo, come in un autoscontro, al centro della pista e con l’auto senza energia. Ma sinceramente non credo che si possa tornare al punto di partenza. Questa nuova vita ha tanti contro e pochissimi pro, probabilmente perché facciamo l’errore di paragonarla continuamente a quella pre-covid. Così come facciamo l’errore di paragonare la ristorazione al pre-covid. Addetti ai lavori, clienti, fornitori, pescatori, allevatori, artigiani, nessuno escluso. È come un ragazzo che, nonostante si sia lasciato da anni con la sua ex, non fa altro che parlare di lei. Ovunque. E se non si tornasse come prima? Ve lo siete preparato il piano B?»
E come cambia il lavoro in cucina?
«Da diverse settimane cucino in mascherina e guanti. Ormai è schifosamente normale. Anzi, l’anormalità è incontrare qualcuno senza. Non si sentono i profumi, si suda da bocca e naso, a fine serata i segni ti tagliano la pelle, non riesci a parlare a telefono. Per i guanti stendiamo un velo pietoso. Però bisogna farlo e lo facciamo. Senza fare troppo i filosofi. Per assaggiare qualcosa, adesso mi viene naturale abbassare la mascherina. Idem per bere. Quando non la indosso, istintivamente faccio lo stesso movimento. È proprio vero che siamo animali abitudinari…E purtroppo ci abitueremo anche a questo. Noi che vivevamo nell’epoca dell’apparire senza essere. Oggi è la terza giornata di fila che sto 18 ore in cucina non stop. Dov’ è la novità – mi direte. È che sono solo. Sento scendere ogni goccia del lavandino. Mi sento lo sporco addosso fin quando non lavo le postazioni. Tengo a mente le ricevute da battere appena arriva il rider. Lavapiatti, cuoco, chef, cassiere, negoziante, banchista. Poco importa, sono felice. Ho i muscoli che mi fanno male, il prurito ad entrambe le gambe, puzzo perennemente di fritto ed ho schizzi di sangue di pesce ovunque, anche nei capelli. Ma oggi va così. Il mio maestro diceva sempre «se decidi di salire sul ring devi essere pronto a morirci, altrimenti non salire». Io decido sempre di entrarci a peso pieno. Ma domani i veri eroi saranno i rider, coloro che girano per la città a portarvi i piatti per farvi mangiare senza cucinare. Correranno come matti e sicuramente saranno in affanno. Ecco, siate buoni con loro. Io per il giorno di Pasqua ho deciso – a debita distanza – di preparare per loro un buffet freddo dove ognuno, prima di prendere il suo ordine, ha potuto rifocillarsi. Nessuno me lo impone ma in queste due settimane li vedo negli occhi, l’ unica parte scoperta. Sono giovani, spesso stranieri, spaventati, impauriti e persi. Mettono a repentaglio la loro vita (si, avete letto bene!) per pochi euro al giorno. Insomma, non pensate a noi cucinieri che siamo abituati a sanguinare. CI piace anche per questo il nostro lavoro! Pensate a chi vi porta il cibo. In bicicletta. Sotto al sole, con guanti di lattice e mascherine. Magari con i propri cari, a casa, che li aspettano.»
Risorgeremo?
«Non saprei. Io intanto devo trovare le forze per risorgere domattina che alle 7 devo essere giù in cucina.»