S’è incupito tutto, e come potrebbe non esser così.
Non succede soltanto perché le buone notizie sono poche e, le volte che ce le danno, ci ricordano che non vogliono dire granché, non sono stabili, né durature, domani potrebbero peggiorare, e bisogna continuare a comportarsi come se si fosse al buio anche se s’è accesa la luce (esiste qualcosa di più innaturale? Ma allora non datecele, le timidamente buone notizie, cosa accendete a fare la luce se poi ci dite di tenere gli occhi chiusi?).
S’è incupito tutto perché tutto ha preso a funzionare in conseguenza della pandemia. Tutto ha preso la sua forma, tutto le coincide, e non c’è nessun margine di libertà, nessuno spazio che sia rimasto incontaminato dai suoi allarmi, dai suoi rischi, dai suoi dettami, nessun momento d’evasione, nessun carnevale possibile, nessuna catarsi.
L’emergenza è una nuova ordinarietà. Non è stato possibile confinarla alla congiuntura e lasciarla fuori casa: abbiamo dovuto farla entrare in salotto, nel letto, nei diari, nei sogni, nelle bugie, negli sguardi.
Allison Davis ha raccontato sul New York Magazine che la sola cosa che è riuscita a pensare, quando il ragazzo che frequenta le ha mandato una foto che s’era scattato in fila al supermercato, è stata, oh no, ma non sta mantenendo la distanza di sicurezza, ma che razza di mostro è, chissà di quali altre più gravi nefandezze sarebbe capace.
Non un fiato, un sussulto, un tremito per il suo viso, bello come sempre, nessuna emozione per il fatto che lui avesse pensato a lei, nessuna amarezza per il non poter essere lì con lui.
Il modo in cui gli altri rispettano le regole di contenimento del contagio, s’impegnano a stare in casa, s’industriano per alleviare la quarantena e insomma s’adattano alla cattività, sono diventati i criteri con cui li giudichiamo, ci innamoriamo o disamoriamo di loro.
Gli appuntamenti che diamo al dopo sono chiacchiere, teatro: nessuno di noi ci pensa davvero, giacché il futuro è diventato insondabile, buio, isterico, indipendente. Pensiamo al presente, e viviamo di surrogati del passato. Non abbiamo smesso di cercare l’amore online, e non perché speriamo di incontrarlo, prima o poi, di persona. Non intratteniamo conversazioni con sconosciuti o datati conoscenti per apparecchiare la lunga tavolata di cene e incontri nel post Covid: lo facciamo per cominciare a cenare. La fame dell’altro non ci è passata, ma ci siamo rassegnati a sfamarla a distanza, nella simulazione del contatto.
Il 70 per cento degli utenti di Hinge, un’App di datig molto popolare negli Stati Uniti, ha dichiarato di essere ben felice di cominciare una relazione online. Cominciare, non preparare. Fare, non flirtare. Non stiamo aspettando che passi, anche se continuiamo a dire che accadrà e torneremo a rotolare nei parchi (ma quando mai abbiamo rotolato nei parchi?), e ad abbracciarci, e a baciare estranei ubriachi, e ad esagerare e chissenefrega di tutto sì.
Noi stiamo adattandoci a quello che c’è, com’è inevitabile che sia, volenti o nolenti, consci o non consci, attivi o passivi. E quando e se torneranno le possibilità del mondo di prima, cosa faremo, ce le andremo a prendere o le ignoreremo? Tra una videochat con un ragazzo molto brillante con il quale conversiamo magnificamente da mesi senza la seccatura del sesso e della parrucchiera, e un arrischiato vis à vis con lui, che magari dal vivo mostra disturbi e tic e idiosincrasie, cosa sceglieremo?
Aver trasportato online tutte le cose di prima si rivelerà una buona idea?
Non aver messo in pausa niente, esserci affannati a traslocare l’aperto nel chiuso, si rivelerà efficace?
I datori di lavoro che avranno capito quanto risparmio c’è a tenere in smartworking tutto l’ufficio, rivorranno i propri dipendenti tra i piedi? Si renderanno conto o no che per lavorare c’è anche bisogno che i colleghi si guardino in faccia, litighino, condividano il caffè, o si faranno bastare la soddisfazione del risparmio?
«You are your safest sex partner» è scritto nelle linee guida per fare sesso durante il lockdown diffuse dal New York Department of Health. Ma rassegnarsi al sesso solitario, specie se sprovvisti di sex toys (a New York pare cha la prima consegna utile per un dildo sia a maggio), non piace a nessuno, proprio adesso che si può fare sesso senza alcun rischio, in webcam, senza neanche sentirsi dei pervertiti, ma anzi agendo da ligi cittadini attenti alla salute propria e altrui.
I portali dove fino a due mesi fa si prenotavano ragazze di compagnia, vendono adesso spogliarelli in diretta streaming e certi altri si sono attrezzati per offrire veridiche esperienze orgiastiche (su Zoom già capita, si fa sesso insieme, in tanti, in feste più o meno macabre, persino Eyes Wide Shut ha trovato il suo riadattamento in chiave Coronavirus).
Durerà poco anche questo, forse. La sbornia del sesso passerà, ci abitueremo a farlo da soli, velocemente, in bagno, per espletare un bisogno fisiologico, e addio fantasia. Addio mutandine di chiffon, addio baci, carezze, frasi sbagliate, errori fortunati, coincidenze, alchimie, dionisiache tendenze ad eccedere.
Ci corteggeremo pavoneggiandoci del nostro essere immuni al virus, asintomatici schedati e quindi iscritti all’albo degli innocui, portatori sani di una nuova immunità. Ci videochiameremo mentre siamo sul tapis roulant – «guarda amore che bravo e veloce e sano che sono» – e sarà il solo assaggio di corpo che concederemo all’altro. Dopotutto ci aveva sfiniti, il corpo.
«Non c’è limite a cosa la razza umana riesce a imporsi con l’abitudine, questo è il guaio», ha scritto Ester Viola. E siccome è vero, quando agite per abitudine, fateci caso.