GastroCultTutti cucinano Ottolenghi

I 5 motivi per cui dovreste provare anche voi le ricette del celeberrimo cuoco e imprenditore israeliano-inglese, tra le più seguite e replicate dai cuochi amatoriali di tutto il mondo

Ottolenghi
Uno dei piatti di Ottolenghi

Ormai ho un’età per cui è un po’ ridicolo dichiararmi “fan” di qualcuno – oltre al senso di opportunità, più che altro mancano le energie. Quando apprezzo una persona pubblica la stimo, come Pina con Fantozzi. Pochissime le eccezioni, tra cui spicca Yotam Ottolenghi, cuoco e imprenditore della ristorazione, celebre per seguitissime rubriche di cucina (su The Guardian e NY Times) e ancor più per alcuni ricettari diventati quasi istantaneamente dei classici. Se tra i vostri amici sui social media ci sono cuochi casalinghi appassionati, probabilmente vi sarete già imbattuti nelle sue creazioni: piatti molto colorati, ambiziosi ma avvicinabili, belli con l’anima (cioè non progettati per Instagram come l’unicorn food).

Come è normale con un “culto”, i non iniziati sono sempre un po’ perplessi – chi è quest’uomo, perché insiste per farmi acquistare della melassa di melograno? – quindi quanto segue serve a spiegare come mai potreste gettare via tutti i vostri libri di cucina e tenere solo quelli di Ottolenghi.

Prossimo appuntamento con la saga a settembre con il nuovo libro, “Flavour”, dedicato alle verdure: si può già preordinare (firmato, se siete anche voi dei fan, o se finirete per diventarlo).

1) Agli antipodi degli stupidari di cucina

Le ricette di Ottolenghi non sono complicate – ma non sono nemmeno semplici. Mi spiego: anche se non richiedono molta tecnica – pochi impasti, poche lievitazioni, niente soufflé a rischio di implosione né ravioli da chiudere con precisione millimetrica – sono spesso lunghe, laboriose e con molte componenti che devono marciare a ritmo. È la sua firma, che il New Yorker ha parodiato in un pezzo irresistibile intitolato “Le ricette più facili di Ottolenghi”, dove i procedimenti prevedono passaggi come “prendere un volo per Gerusalemme in tempo per essere al mercato di Mahane Yehuda entro le 9 del mattino di un giorno feriale”.

Ottolenghi è molto risoluto nel chiedere uno sforzo al lettore, agli antipodi dalla cucina domestica che ha prevalso negli ultimi trent’anni: la sistematica semplificazione – il dumbing down – delle preparazioni, la santificazione della scorciatoia in cucina (in Italia da Suor Germana fino a “Fatto in casa da Benedetta”).

Se è vero che queste preparazioni richiedono al cuoco amatoriale un po’ di organizzazione e di disciplina, ripagano con gli interessi l’impegno profuso.

Per mettere insieme rapidamente una cena infrasettimanale, citofonare Simple: il libro (in Italia edito da Giunti) raduna le ricette più accessibili. Il titolo è un acronimo per preparazioni “superveloci”, con 10 ingredienti al massimo, facili da eseguire e con ingredienti già in dispensa (mah).

2) Il risultato finale è molto più della somma delle parti

A chi – come me – cucina tanto in genere basta leggere una ricetta per farsi un’idea piuttosto precisa del risultato finale. Questo di per sé non è un problema: il dramma è un altro, cioè che l’80% delle ricette che si trovano online (stima conservativa) non funzionano, e sulla carta stampata andiamo a malapena meglio: solo pochi illuminati con grandi risorse testano ogni preparazione (le ricette dei grandi chef in particolare tendono a essere un vero campo minato, ma sto divagando).

Insomma, una ricetta che riesce proprio come te la aspetti va già bene, ma Ottolenghi fa molto di più: le sue preparazioni non accostano gli ingredienti, ma trascendono gli elementi singoli e acquistano vita propria, come la creatura di Frankenstein (“It’s alive!”). Se questo può sembrare un risultato a portata di mano in ricette dove la lista degli ingredienti occupa due colonne, sono le combinazioni più semplici a sembrare quasi formule magiche. Prendiamo ad esempio una sua non-ricetta estiva: anguria a fettine, feta sbriciolata, menta fresca e cipolla rossa tagliata fine. La leggi e dici “ok”.

La provi e resti zitto, poi pranzi così quattro volte alla settimana finché l’anguria è in stagione.

3) I piaceri delle verdure

Nel suo “Le Regole del Cibo”, il saggista e gastronomo Michael Pollan (altro santino da queste parti) ha creato un motto perfetto di estrema sintesi: “Mangia cibo. Non troppo. Soprattutto verdure”.

La dieta mediterranea è per sua natura “plant-based”, anche se con straordinaria miopia il Ministero della Salute ha ribaltato pochi mesi le Linee Guida precedenti dove si pronunciava in questa direzione – perché “a prevalenza vegetale” sembrava in odore di veganesimo (quindi di eresia, o peggio “ortoressia”).

Dire “soprattutto verdure” vuol dire educarci a costruire i pasti partendo dalla verdura; sono le proteine animali a dover fare da “contorno”.

La cucina di Ottolenghi – che è nato a Gerusalemme e da ragazzo ha vissuto in Italia – è pan-mediterranea, con le sue radici nella tradizione spuria di Israele, crocevia di popoli, tra i due grandi poli di sapore di Turchia e Libano. Da lì si amplia: il Maghreb, l’Italia, l’Adriatico e il Tirreno, con un po’ di Francia (Ottolenghi ha anche una formazione classica da chef: è diplomato al Cordon Bleu). Nella cucina mediterranea, storicamente, di carne se n’è sempre mangiata poca: le nostre erano civiltà agricole e pastorali, in climi dove le verdure crescono copiose – e buonissime.

Tutti i suoi libri sono veggie-friendly, due sono completamente vegetariani: Plenty (il mio preferito in assoluto) e Plenty More, il suo “seguito”, riuniscono le migliori ricette uscite sulla rubrica dedicata sul The Guardian, che inizialmente lo chef non voleva, considerando il veg troppo di nicchia. Ottolenghi, infatti, non è vegetariano: come racconta questo profilo del New Yorker: “Non ha lasciato il paese dove la gente non mangia né frutti di mare né carne di maiale per cucinare per chi non mangia altro che piante”.

4) Il culto per gli ingredienti oscuri

Ottolenghi ha una serie di ingredienti feticcio che ritornano di continuo nelle ricette. Ogni volta che qualcuno mi chiede consiglio su quale ricettario acquistare per primo, io raccomando contestualmente di fare rifornimento anche di “ingredienti Ottolenghi”, altrimenti ci si trova al palo al primo tentativo (online si trova quasi tutto, io mi rifornisco spesso qui).

Lista non esaustiva: sumac, zaatar, peperoncino Urfa in scaglie (mai scovato, devo confessare), cardamomo, melassa di melograno, harissa alla rosa (anche con questa non ho avuto fortuna, sostituisco con l’harissa normale), tahini, aglio nero fermentato, limone in salamoia. Cos’hanno in comune, a parte la provenienza mediorientale? Lo spiega Ottolenghi stesso in Simple: “Sono tutti delle piccole bombe di sapore, che arricchiscono e rendono audace qualunque piatto a cui vengono aggiunti”. Ora, se è legittimo considerarli un po’ esoterici, posso confermare che non sono un vezzo né una stramberia: la cucina di Ottolenghi mi ha insegnato un’altra via per ottenere intensità e concentrazione rispetto a quella dell’alta cucina classica, che è – in breve – “usare moltissimi grassi”. Qui invece ci sono freschezza, acidità, e tanta, tanta tensione verso il sapore: da Ottolenghi ho imparato anche a finire i piatti con mezzo limone spremuto, e a spezzare con le mani interi mazzetti di basilico, coriandolo o aneto, capaci di sollevare qualunque piatto – anche l’insalata triste del pranzo.

5) Politica fatta in casa (e in cucina)

La cucina di Ottolenghi – creola e contaminata, che chiama casa tutto il Mediterraneo – è di per sé un messaggio sull’abbattimento dei muri, su come l’incontro tra culture porti sempre a un arricchimento. Questo tema non rimane implicito: è discusso apertamente, soprattutto in “Jerusalem”, dedicato alla cucina della città sacra crocevia di mille culture. Il libro è a quattro mani: insieme a Yotam Ottolenghi, ebreo di origini italo-tedesche (il cognome è una italianizzazione di Ettlingen, una città nel Baden-Württemberg: quando espulse gli ebrei, molti si trasferirono nel Nord Italia) c’è Sami Tamimi, palestinese della zona musulmana. I due sono cresciuti nella stessa città, “bloccati in culture apparentemente lontane e sempre in conflitto” come raccontano nel libro, ed “entrambi hanno deciso di lasciare Gerusalemme, per ritrovare la pace”. Londra li ha fatti incontrare, e lì sono diventati soci d’affari (i ristoranti del gruppo Ottolenghi appartengono a entrambi).

Nella stessa prosa piana ed esatta dei suoi libri di cucina, nel 2013 Ottolenghi ha fatto per The Guardian un secondo coming out, raccontando il lungo percorso che l’ha condotto ad avere un figlio con il suo compagno, grazie alla gestazione per altri in California. Nell’articolo, racconta dell’iniziale esitazione a fare questo annuncio: “Abbiamo pensato di tenerlo privato (…) Ma presto ci siamo resi conto di quanto fosse ingenuo, persino egoistico. Entrambi abbiamo fatto coming out in un momento storico in cui, in superficie, le cose erano normalizzate. Nessuno di noi due aveva sperimentato gravi episodi di bullismo o ostacoli nella carriera. Ma, in realtà, non eravamo completamente liberi: avevamo ancora atteggiamenti negativi, uno dei quali era la tendenza a mantenere privata la nostra vita. Il momento di dire al mio barbiere che ero gay, per esempio, non arrivava mai”. Dopo Max, nato nel 2013, Ottolenghi e il suo compagno hanno avuto anche Flynn, 4 anni: in queste settimane il profilo Instagram di Ottolenghi (1 milione di follower) è stato riconvertito a causa della quarantena e invece dei piatti della test kitchen o dei ristoranti adesso ci sono i biscotti cioccolato & noci di pecan impastati dalle manine dei suoi bambini. Il personale è politico, avremmo detto una volta.

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