Post virusPer ripartire bisogna progettare un nuovo mondo, non ricostruire sulle vecchie macerie

Si dovrà ripensare a una nuova economia, a nuovi processi politici e di apprendimento. La parola chiave per farlo è partnership

Alberto PIZZOLI / AFP

Il linguaggio è un atto eminentemente politico: ogni parola che pronunciamo è innervata delle nostre relazioni con gli altri poiché non può esistere un sistema di segni che riguardi una persona sola. Dunque, ogni volta che scegliamo una parola, che conferiamo a una frase una sfumatura al posto di un’altra, abbiamo la possibilità di esercitare un potere infinito e travolgente.

Oggi più che mai ne stiamo avendo sempre più evidenza, una parola può cambiare un evento, una situazione, un sentimento. Prendiamo ad esempio l’incipit del recente discorso del presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Lo riporto per facilità in italiano: «Non trovo le parole per rendere giustizia al dolore dell’Europa o a tutte le persone che soffrono nel mondo. Rivolgiamo i nostri pensieri e le nostre preghiere a tutte le famiglie in lutto. E ci ripromettiamo di raccontare le loro storie e di onorare le loro vite e la loro memoria. Ci ricorderemo di tutti loro.

Ci ricorderemo di Julie, la giovane francese che si era appena affacciata alla vita, di Jan, lo storico ceco di grande esperienza che aveva sempre lottato per ciò in cui credeva, e di Gino, il medico italiano in pensione che era tornato in servizio per salvare vite umane. Ci ricorderemo dell’incredibile gesto di Suzanne, che ha ceduto il suo respiratore a un paziente più giovane in Belgio, e dell’immagine di Francis che ha detto addio a suo fratello attraverso la finestra di un ospedale irlandese.

Ci ricorderemo della neomamma polacca che non vedrà crescere il suo bambino e del giovane allenatore spagnolo di calcio che non vedrà mai realizzarsi il suo sogno. Ci ricorderemo di tutti loro. Delle madri, dei padri, delle sorelle e dei fratelli. Dei giovani e degli anziani, provenienti da nord o da sud, da est o da ovest. Degli amici e dei colleghi, dei vicini della porta accanto e degli estranei di paesi lontani. Di quelli con storie da raccontare e luoghi da visitare. Di quelli sulla cui spalla piangiamo e sul cui amore facciamo affidamento. Migliaia di storie, ognuna delle quali si porta via un piccolo frammento del nostro cuore».

Qual è stata l’operazione compiuta con queste parole se non di trasportare all’interno di un contesto altamente istituzionale, dunque per sua natura molto formale e alquanto algido, il dolore delle piccole vite? Se non di far riecheggiare tra le pareti di uno tra gli edifici più simbolicamente rappresentativi i nomi comuni di gente comune al posto della consueta nomenclatura? Se non un autentico atto politico?

«Le parole sono la più potente droga usata dall’uomo», diceva Rudyard Kipling. Con le parole si può cambiare la visione del mondo, si possono suggestionare le società, le comunità, le organizzazioni e gli individui orientandoli verso modelli comportamentali differenti, anche diametralmente opposti. Li si può trasportare verso orribili incubi oppure verso magnifici sogni di progresso.

Dove può trasportarci un lessico politico e mediatico che parla di “ricostruzione”, di “ripartenza”, di “riapertura” se non verso l’immagine di un mondo postbellico?  Se non in uno scenario di devastazione in cui lo sforzo sarà riedificare esattamente e pedissequamente le cose demolite dalla pandemia.

Eppure, io credo che un’Italia, un’Europa, un mondo copiaincollato a quello precedente non sia il miglior futuro per noi e per le generazioni successive. Credo che questo evento che tanto dolore e sofferenza sta infliggendo alle nostre esistenze non solo per le perdite di vite umane, di affetti, di amici, ma anche per la crisi economica globale che sta generando, non debba essere sprecato.

Credo che tutto questo dolore, così enorme, prepotente e potente, non debba andare sprecato come succederebbe se limitassimo la nostra capacità di cambiare rotta accontentandoci di ricostruire quanto più possibile lo status quo di prima.

Credo anzi che debba essere messo al servizio delle nostre migliori capacità di immaginare e creare un nuovo modello di vita in cui però la libertà individuale venga affermata e mai soffocata in nome di decisioni tecnocratiche che nel tentativo di perseguire un vantaggio per l’insieme, per esempio una maggior sicurezza, possono comportare privazioni di asset parimenti importanti.

Occorrerà progettare una nuova economia per creare un benessere sostenibile per tutti, progettare nuovi processi politici per favorire modalità di partecipazione e dibattito più dirette, distribuite e dialogiche, progettare nuovi sistemi educativi e di apprendimento per costruire un’alfabetizzazione verticale, che integri cioè le capacità di testa, cuore e mano.

Per progettare economia, politica e istruzione, la parola chiave è partnership. Una parola che significa condivisione, relazione, solidarietà e felicità. La gratitudine ne è l’essenza per tenere al centro sempre sia l’interesse del singolo sia quello dell’insieme.

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