Gli ingredienti ci sono tutti: la caduta verticale della produzione e del commercio, il crollo del prezzo del petrolio, la chiusura delle frontiere e l’incertezza sulla ripresa economica futura. La crisi sanitaria innescata da Covid-19 ha colpito duramente le maggiori economie mondiali, ha alimentato il sospetto verso le organizzazioni sovranazionali e internazionali (come l’Unione europea e l’organizzazione mondiale della Sanità) nonché evidenziato le relative criticità. Infine, ha spento quel barlume di speranza di una risoluzione delle tematiche transnazionali in senso cooperativo. E quindi ci siamo, la globalizzazione è morta. O forse non stiamo considerando tutti i tasselli del puzzle.
Torniamo a 12 anni fa. Era il 15 settembre 2008 quando Lehman Brothers annuncia l’intenzione di avvalersi del Chapter 11 del codice fallimentare americano. È il punto critico di una catena di bancarotte che interessarono alcuni dei maggiori istituti di credito degli Stati Uniti e, nell’immaginario collettivo, l’inizio della Grande Recessione.
Le nefaste conseguenze di quel tonfo a Wall Street hanno segnato una stagione politica caratterizzata da un forte risentimento verso il processo di globalizzazione economico-finanziaria degli anni precedenti. Ma non era forse quello il colpo di grazia, dopo la crisi asiatica, la dot-com bubble e gli scontri di Seattle, alla globalizzazione?
Quali sono allora i tasselli mancanti? Ci sono 3 fattori che hanno determinato la nascita ed espansione della globalizzazione economica come la conosciamo noi oggi: la rivoluzione Ict (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ndr), l’abbattimento dei costi logistici e di trasporto e le scelte politiche favorevoli alla liberalizzazione del commercio internazionale.
Crisi pandemica o meno, gli strumenti informatici che permettono a milioni di persone di comunicare, lavorare e gestire i processi organizzativi sono ancora attivi e largamente impiegati. I dati raccolti da Eurofound mostrano come almeno un 30% dei lavori svolti nell’Unione Europea siano stati trasformati in telelavoro.
È vero, il costo del movimento di beni e persone è certamente aumentato a seguito delle draconiane misure di lockdown adottate da alcuni governi (a dire il vero, alcuni molto meno di altri, si pensi alla Germania), ma le recenti evidenze suggeriscono un lento ritorno alla normalità.
I dati sul traffico aereo mondiale hanno registrato una brusca frenata a metà marzo, toccando il 25% sul totale nel mese precedente. Nella terza settimana di maggio, tuttavia, il traffico mondiale è raddoppiato rispetto agli inizi di aprile. Segnali di un processo di riapertura che potrà pienamente compiersi grazie alla diffusione di una cura effettiva del virus.
I dati di commercio internazionale per gli Stati Uniti hanno, invece, già registrato un rebound (rimbalzo), con l’import statunitense da Unione europea, Regno Unito, Giappone, Corea, Canada e Messico ormai tornato ai livelli pre-crisi. Unica eccezione, tra i grandi partner commerciali, la Cina. Qui veniamo al terzo dei punti precedentemente elencati, il ruolo della politica economica.
Il sovranismo americano del presidente Donald Trump e quelli europei di Boris Johnson e Matteo Salvini, si fanno promotori, tra le altre cose, dell’autarchia economica e del reshoring (il rientro a casa delle aziende che in precedenza avevano delocalizzato, ndr).
Per noi Europei, Brexit è la manifestazione concreta di tale approccio: la riappropriazione del controllo politico e l’abbandono della ricerca di soluzioni trasversali, che esulino dall’ottica del mero interesse nazionale.
Oltre oceano, la guerra commerciale dichiarata da Trump alla Cina negli ultimi due anni ha causato un terremoto politico e costretto il segretario del Partito comunista cinese Xi Jinping a promuovere politiche di riorientamento della produzione verso la domanda interna cinese. Rientro negli Stati Uniti di aziende americane e aumento dell’occupazione sono gli obiettivi dichiarati, ma ci sono anche altri interessi geo-politici nell’area.
Emblematico il caso del Giappone, che ha stanziato 220 miliardi di Yen (circa 2 miliardi di euro) per promuovere il nearshoring delle aziende nipponiche dalla Cina verso Tokyo o almeno verso i paesi dell’ASEAN. Questi ultimi, come piccoli vasi di terracotta tra due enormi vasi di ferro, potrebbero ritrovarsi a scegliere se agganciarsi alla locomotiva cinese o a quella americana, con ampie conseguenze istituzionali e di influenza che ciò comporterebbe per l’intera regione.
La pandemia ha aggiunto un ulteriore afflato alla narrativa del “maggiore chiusura, maggiore sicurezza”. Tuttavia non basta l’ottimismo della volontà per raggiungere l’obiettivo dell’autarchia economica. La globalizzazione è un processo profondamente radicato nella struttura organizzativa delle odierne catene del valore: la distribuzione tra le diverse economie mondiali di tecnologie, infrastrutture e capitale umano è il frutto di circa 50 anni di investimenti che non possono essere cancellati dall’oggi al domani per atto legislativo.
Un esempio esplicativo è proprio il caso americano. La progressiva introduzione dei dazi sui prodotti cinesi, cominciata ad inizio 2018, ha si ridotto il disavanzo commerciale di Washington con Pechino dell’8%, attraverso una riduzione della quota cinese importata di più del 10%, ma ha altresì fatto esplodere le importazioni da Taiwan, Messico e Vietnam, ottenendo un misero miglioramento della bilancia commerciale, senza tuttavia aver prodotto alcun effetto significativo sull’occupazione statunitense.
In sintesi: no, non sarà il Covid-19 a mettere la parola fine alla globalizzazione. Al contrario, la pandemia potrebbe accelerare alcuni processi globali già in corso. I più interessanti al momento sono tre: l’aumento dei costi organizzativi e di trasporto potrebbe incentivare il reshoring di processi produttivi attraverso l’automazione, senza che questo abbia sostanziali ricadute sull’occupazione (con buona pace dei sovranisti).
Governi e aziende fronteggiano la sfida dell’approvvigionamento dei beni essenziali. Diversificazione dei fornitori e stoccaggio di equipaggiamenti, come quelli medici, sono le strade percorribili al momento, nonostante la prima presenti costi maggiori e tempistiche incerte. Infine, la scalata cinese delle catene del valore.
Sarà la Cina capace di sviluppare industrie ad alto valore aggiunto che possano competere con quelle occidentali? Persino un colosso come Huawei non può fare a meno dei semiconduttori taiwanesi e americani. La partita della globalizzazione, quindi, è ancora tutta da decidersi.