Dopo i runner, la movida, un’altra parola usata a sproposito perché è difficile definire movida l’assembramento di qualche decina di sedicenni fuori da un paio di bar. Basterebbe un vigile per disperderli. Forse pure un alpino in pensione. E tuttavia l’avviso ai movidanti assume la dignità del discorso governativo, entra a Palazzo, si fa strada nelle istituzioni.
«Non è tempo di movida», dice il presidente del Consiglio. «Basta movida o chiudiamo tutto», fanno eco i presidenti delle regioni del Nord. Il ventenne con lo spritz in mano è il nuovo Nemico Principale, l’arcidiavolo di quel pezzo d’Italia che non vedeva l’ora di poter esprimere la sua malmostosa insofferenza per i giovani.
È un movimento sotterraneo e diffusissimo: è l’ondata children-free che un anno fa polemizzava sui bambini al ristorante; è il vigilante collettivo che nel lockdown denunciava i seienni in bicicletta; è il virologo autodidatta che su Facebook pubblica le foto della partita di calcetto al parco scrivendo: «Qualcuno li fermi».
Tutto ciò che ruota intorno ai giovani, per questa Italia senile e incattivita, è pericoloso, insensato, un inutile fastidio. Non a caso siamo il Paese che ha fatto per primo la serrata delle scuole e minaccia di conservarla anche a settembre. Stessero a casa, chi li ha voluti se li tenga: le lezioni online sono più che sufficienti, e quelli che non hanno il computer potranno fare i braccianti nei vigneti o nei campi di cocomero, che servono tantissimo.
Con lo stesso zelo è stato piallato lo sport professionista, altra attività che suscita rancorose invidie per i muscoli, le cartilagini elastiche, il passo svelto dei ventenni che lo praticano: manco gli atleti della maratona o del salto in alto hanno avuto il permesso di allenarsi (una delle multe più folli e famose riguarda la campionessa di Biathlon che aveva osato correre a 300 metri da casa).
Che cosa vogliono questi fanatici dei cento metri? Aspettino come noi vecchi, se si giocano l’accesso a una gara o a un record non sarà poi un dramma.
L’urlo politico contro la movida chiude il cerchio delle maledizioni senili. Logica vorrebbe che si prendessero di mira i proprietari dei bar: tutti gli assembramenti segnalati erano sulla soglia di un locale pubblico. Ma i proprietari di bar non sono categoria invisa, i sedicenni sì, e l’invettiva si orienta ovviamente su di loro.
Finalmente c’è un motivo per giustificare il fastidio che suscitano e che risale a epoche ben precedenti al virus. A Roma i residenti guerreggiano da anni contro i nottambuli di Trastevere e le loro abitudini insensate, tipo quella di guardare vecchi film all’aperto nelle rassegne estive organizzate nel quartiere.
I titolari di abitazioni pagate a caro prezzo, la sera, vorrebbero godersi le terrazze sui tetti nel silenzio, e invece devono sorbirsi gli applausi per Bogart o De Niro. Il Coronavirus offre a tutti l’alibi perfetto per tornare a invocare il coprifuoco e restituire i centri cittadini ai loro proprietari catastali.
L’Italia No-Young è trasversale e potente. È quella che davanti ai numeri dei ragazzi emigrati all’estero dice «Meglio perderli che trovarli». L’Italia che ha deriso gli studenti in gara per il 30 agli esami definendoli «sfigati». Quella che li invita da un decennio a fare gli idraulici anziché iscriversi all’università. Che li accusa di mammismo perché restano a casa coi genitori o di fancazzismo perché non vogliono raccogliere fragole a due euro l’ora.
Ecco, è da questo tipo di Italia che scaturiscono le catilinarie contro la movida, aggravate dal fattore invidia per una categoria anagrafica largamente immune dal virus. Sì, è vero che basterebbe un vigile per disperdere gli sporadici assembramenti di ragazzi, ma vuoi mettere il gusto di strillargli contro? Di farne i capri espiatori di una possibile ripartenza dell’epidemia?
Vuoi mettere l’appeal politico di un nemico in carne e ossa – e per di più un nemico che non conta niente – da indicare al pubblico ludibrio, ora che non ci sono più i runner con cui prendersela?