Il racconto che avrei voluto leggere, in questo lockdown, avrebbe potuto scriverlo soltanto lui, Francesco Piccolo. Gli dico che fossi stata direttore di un giornale o giù di lì, l’avrei chiamato per chiedergli di scrivere su come scegliere le quindici persone che possono presenziare al suo funerale. «Mi sarebbe piaciuto – mi risponde – mi avrebbe permesso di fare quello che un racconto deve fare e cioè misurare la vita sia sul piano pratico che su quello filosofico». Senza considerare la controversa questione degli obblighi parentali, degli scongiuri, degli sgarbi da evitare. Mannaggia. Sarà per la prossima pandemia.
Gli chiedo se in questa, intanto, ha avuto paura di morire. «Eccome – dice – La morte si è avvicinata per tutti, è stata più presente, e forse dovrei dire che lo è ancora, dovrei evitare di parlare come se tutto fosse passato. Per me è quasi una novità, io di solito rimuovo tutto, la morte, la malattia, l’apocalisse. Dev’essere per questo che continuo a ripetere che tutto tornerà come prima».
Eppure una volta ha detto che l’apocalisse rende tutto elementare. «Anche per questo la temo – dice Piccolo, evidentemente non sto decontestualizzando – Ci vorrà molto tempo, il prezzo che pagheremo sarà alto, ma non ho mai smesso di pensare che tutto tornerà com’era e non per sfiducia nell’umanità, ma proprio perché ne faccio parte e vorrei che tornassimo a essere chi eravamo, come eravamo. Può darsi, tuttavia, che io stia solo costruendo un muro di difesa, intanto so per certo che voglio riconquistarmi metro dopo metro la vita che avevamo».
Ieri è uscito “Momenti trascurabili” (Einaudi), il terzo volume dei Momenti (c’erano stati quelli di felicità trascurabile e quelli di infelicità trascurabile). Comincia con un racconto sul tempo e due sue misure: il presente e il futuro. Per Piccolo, il futuro esiste ed è quindi il caso di tenerselo buono, di prepararsi, di investire, di mettere da parte; per sua moglie no; lui dice “progettiamo”, lei dice, e se poi moriamo?; lei dice godiamoci la vita, lui dice e cosa ce la godiamo a fare, se poi moriamo?
È sempre così, con i suoi libri. Finisce tutto in un cul de sac. Non c’è mai un punto saldo, non si capisce mai se lei si prenda sul serio oppure no.
«Queste due cose, il prendersi sul serio e il non farlo, sono il matrimonio dello scrittore. Tra di loro, si deve trovare un punto d’equilibrio. Lo si deve trovare e basta, senza cercarlo. Evito in tutti i modi di darmi una risposta su chi sono come scrittore: se lo facessi, seguirei quella risposta, e non farei che confermarla. Invece, preferisco pensare continuamente a cosa fare, come scrivere, come raccontare, perché è l’unico modo per restare dentro a quello che scrivo. Se c’è una cosa che temo è di restare fermo in un posto. E lo dico avendo pubblicato una trilogia: sono perfettamente consapevole che il mio movimento, talvolta, è poco percettibile, ma io scrivo di me stesso, anche se è un me stesso letterario, ed è importante che la mia scrittura segua il mio cammino, la mia evoluzione, anche il mio invecchiamento».
Cos’è un momento trascurabile?
«La congiuntura mi aiuta e rende molto più chiaro il fatto che, nella trascurabilità, se un momento sia felice o infelice cambia poco. Ho capito che l’ossatura dell’esistenza sta nei dettagli e sì: nei momenti trascurabili».
È sempre stato un progressista entusiasta. Conferma?
«Non credo ad altro che al progresso. Non importa quanti errori si possano fare andando avanti: avanzare è nostro preciso compito. L’idea di restare dove si è per paura di quello che si potrebbe incontrare dopo è inconcepibile e lo è su un piano innanzitutto politico. La sinistra finisce se, da progressista, diventa reazionaria».
Lei una volta ha parlato della sinistra delle idee inermi, la sinistra dei grandi ineccepibili principi che però non venivano mai misurati con la realtà, di cui non si badava mai a comprendere l’effettiva realizzabilità. Ora sembra che non ci siano neppure le idee inermi.
«Penso che in questo momento, e in particolare in Italia, la sinistra sia irriconoscibile. Non saprei neppure dire, usando le categorie che dicevamo prima, se sia reazionaria o progressista, è ferma in un punto di neutralità, quindi le manca un pensiero utile. Io non firmo appelli da dieci anni, e mi sento in difficoltà quando lo dico, ma lo faccio perché credo sia diventato importante tirarci fuori dal pensiero confermativo, smetterla di dirci le cose su cui siamo già tutti d’accordo e non potremmo che essere tutti d’accordo. Gli intellettuali, gli scrittori, ma pure gli esseri umani in generale dovrebbero cercare di esprimersi quando capiscono qualcosa che stona con il resto, o a cui nessuno ha ancora badato».
È il disastro dell’assertività, però magari non dura. Ha visto che il New York Times ha scritto che l’inchiesta di Ronan Farrow che ha generato il #metoo potrebbe non essere del tutto attendibile? Se lo immagina un pezzo del genere anche solo un anno fa?
«Il #metoo è l’esempio perfetto: siccome la causa è giusta, allora chi la sostiene diventa intoccabile, viene esonerato dalle considerazioni più complesse, va sostenuto e basta».
Non ho mai capito se lei, quando parla di uomini, e degli animali che si portano dentro, quando li smaschera e lo fa cominciando da sé stesso, è più furbo o più sincero.
«Non sia ingenua, non può aspettarsi di sentirsi dire la verità da qualcuno a cui chiede se sia onesto o disonesto. Di certo, quando ho scritto La separazione del maschio e L’animale che mi porto dentro mi sono occupato di qualcosa che mi interessava a fondo, e l’ho fatto condannandomi e assolvendomi. Lo sguardo che gli altri ti impongono di avere, d’altra parte, è sempre uno solo: se parli della bestialità, devi condannarla. E invece no, a me interessa dire che sono così, non vorrei essere così, ma mi piace essere così o almeno non mi dispiace del tutto».
In un film di Woody Allen, un intellettuale snob in fila per il cinema le direbbe che questa è auto indulgenza.
«Può darsi, ma nella sincerità c’è sempre indulgenza, così come ci sono anche il compiacimento e forse persino la furbizia. Sono tutti elementi che servono a un modo preciso di lavorare, evitando perentorietà, colpe, sbarre».
Le capita di litigare con le donne per quello che scrive?
«Naturalmente sì. Per molte però L’animale ha risposto a una loro richiesta precisa: gli uomini devono raccontarsi. Il problema è che ci sono alcune donne che dicono che gli uomini devono raccontarsi ed essere così come loro desiderano che siano gli uomini».
La virilità non è terribilmente stancante?
«Preferisco parlare di vitalità. Il sesso, la scrittura e la bestialità si alimentano a vicenda e, di più, si nutrono di tutto quello che serve loro per mantenersi vitali. La bestialità non si può eliminare, ma si può tenere a bada attraverso la capacità di stare al mondo, che a volte è questo che prova a combatte: la vitalità. Questo tentativo, però, è un altro modo di esprimere vitalità, che la stanchezza serve a combatterla».
La vitalità ci rende più o meno liberi?
«Non so se essere libero sia l’obiettivo della mia esistenza, almeno dentro un mondo come è il nostro e che mi rende libero per principio».
Nel suo libro la scelta è raccontata sempre come qualcosa che dà grande fatica. Scrive a un certo punto che vorrebbe che il 5 per mille ci venisse imposto, con precisa indicazione dell’ente a cui donarlo.
«La chiamo deresponsabilizzazione, cioè la volontà di non caricarsi il mondo addosso, che è un tentativo di leggerezza e superficialità, due elementi troppo sottovalutati e che invece sarebbero fondamentali, almeno in alternanza con responsabilità e profondità. E non c’entrano con la libertà».
Si è reso utile in famiglia in questo lockdown?
«Io tento sempre di non fare molto, imponendo l’idea scema che un artista non sa e non deve caricare la lavastoviglie. Mia moglie e mia figlia mi accusano di maschilismo e hanno ragione, ma io cercherei di non fare niente anche se fossi femmina. Io non è che delego: io scanso. Le mie energie le metto tutte nel lavoro. A casa sono disordinato, quando scrivo sono precisissimo».
Non peggiori la sua condizione. Distraiamoci parlando di Giuseppe Conte. Le è piaciuto in questi mesi?
«Quella di Conte è l’evoluzione umana più interessante del mondo. Un romanzo su questi anni non può che essere su di lui, uno che faceva il professore per fatti suoi ed è stato improvvisamente scagliato a fare il presidente del Consiglio, ritrovandosi a gestire la crisi più drammatica del paese dal dopoguerra. Già per questo, essendo un personaggio romanzesco, è assolto».
Usciamo dal romanzo.
«Una cosa che questa pandemia ha tirato fuori è la sana presenza dello Stato. Mi piace e rassicura l’idea che le questioni fondamentali di una nazione siano affidate allo Stato e non ad altri. Che ci siano state cose fatte bene, male, sbagliate, giuste, secondo me è meno interessante del fatto che le istituzioni sono tornate, i ministri anche e questa è una cosa che non può che far felice chi, come il sottoscritto, crede che lo Stato democratico sia una cosa seria. Conte è la politica come non dovrebbe essere, come non è stata mai fatta, come non ci è stata insegnata dai filosofi greci, eppure è diventato uno criticabile, simile agli altri. Lo vedevi accanto a Mattarella, all’inizio, e dicevi: Mattarella è la politica, questo è uno qualsiasi. E invece è diventato un politico, un po’ per abitudine e un po’ perché è riuscito a essere presidente del consiglio a lungo in maniera suppergiù sensata».
Insomma ci ha fregati.
«Quando ci siamo messi davanti alla tv ad ascoltarlo, ho avuto la percezione che questo paese è una comunità e lo dico senza vergogna di retorica: mi è parsa una cosa essenziale».
Di Salvini che mi dice? Proprio lui che sul senso di comunità ha costruito una carriera, adesso sembra parecchio smarrito.
«Salvini ha cominciato a perdere di efficacia da prima, da quando è uscito dal governo, anche se ora la sua crisi è più visibile. Appena è uscito fuori dal palazzo è diventato un politico facinoroso qualsiasi che non aveva più gli strumenti essenziali per rendere credibile la sua retorica decisionista. Uno non può essere decisionista se non può decidere nulla».
Lei è scettico sul campanilismo terrone, l’orgoglio di casa, il sud e magia. Però nel suo libro qualcosa di terrone c’è, credo, ed è una specie di dolcezza, di accondiscendenza.
«Forse, la simpatia per il possibile fallimento delle persone, l’idea che questa possibilità non le renda peggiori. Però non sono sicuro che sia un tratto meridionale e basta».
Crede di aver afferrato qualcosa di questo paese e delle persone, che la appassionano al punto che scrive a un certo punto di confidare nella non estinzione di WhatsApp?
«Delle persone, dell’Italia e di me credo di aver afferrato soltanto qualcosa. Ed è più che sufficiente, perché se afferrassi tutto dell’altro, quello non esisterebbe più nella mia curiosità. È come avanzare metro dopo metro dentro un mondo dove devo fare migliaia di km. Questo per molti è avvilente, a me sembra invece strepitoso perché è come se mi lasciassero giocare con la vita per millenni, così. Il fatto che il traguardo non è vicino, mi eccita».