Marianna Mea è una biologa marina. Romana, ha vissuto alcuni anni nel Nord Europa prima di trasferirsi a Napoli. Una sera, mentre porta i rifiuti al cassonetto realizza che pur rispettando scrupolosamente le regole, differenziando in modo scrupoloso la spazzatura, non sta contribuendo a risolvere l’uso smisurato della plastica monouso, lo sta semplicemente incrementando. La soluzione è un’altra: produrre meno rifiuti. «Con questo pensiero in testa, quella notte non sono riuscita a dormire; mi sono collegata a Internet per capire cosa potevo fare concretamente e ho scoperto che ci sono persone che in un anno riescono a produrre una quantità di rifiuti che può essere contenuta in un barattolo di marmellata. Meno di 500 grammi». Per fare un veloce confronto, la media nazionale è 500 chilogrammi, un chilo e mezzo al giorno.
Arrivare a zero rifiuti può sembrare un obiettivo irraggiungibile, l’importante non è focalizzarsi sullo zero ma impegnarsi a ridurre il nostro chilo e mezzo giornaliero. Un passo alla volta come spiega Marianna sul suo blog viveresenzarifiuti.it, in cui racconta la sua vita di mamma zerowaster: «La prima azione concreta è stata analizzare gli scarti e eliminare l’usa e getta, in primis le bottiglie di plastica». In termini pratici, l’acquisto di due borracce si è tradotto in almeno 600 bottiglie in meno da smaltire. Per coloro che non riescono a bere l’acqua di rubinetto perché non ne amano il sapore neanche lasciandola decantare in caraffa sono nate le cosiddette Case dell’Acqua che a prezzo inferiore rispetto a quella in bottiglia forniscono acqua microfiltrata e spesso anche frizzante. La mappa, realizzata da Rete Zero Waste.
Poi è stata la volta del cibo sfuso: in tutta Italia ci sono molti negozi e botteghe che consentono l’acquisto di cibi e prodotti per la casa a peso. Marianna ha iniziato a frequentarli portando sempre con sé borse in cotone e piccoli sacchetti per le pezzature ridotte. Una volta finite le scorte, ha smesso di acquistare prodotti usa e getta – tovaglioli di carta, bicchieri, piatti, posate di plastica, carta da cucina e spugne – scegliendo alternative più durevoli: tovaglioli di stoffa, bicchieri in vetro, posate in alluminio, strofinacci e spugne in cotone ricavate da vecchi asciugamani.
Con un pizzico d’ingegno è riuscita anche a organizzare al figlioletto una festa di compleanno a bassissimo impatto utilizzando festoni di carta e mettendo sulla tavola bicchieri, stoviglie e posate “veri”. Il buffet? Unico per grandi e piccoli, e cucinato in casa. «Quando siamo invitati a cene o feste, possiamo contribuire portando vino o dolci sfusi conservati in contenitori durevoli, oppure un mazzo di fiori del nostro giardino, avvolto con carta di recupero».
Veniamo a un punto dolente: conservare gli avanzi di cibo evitando che vadano sprecati. Ci sono varie alternative alla pellicola per alimenti in pvc: il sottovuoto, i contenitori in vetro oppure in plastica riciclata oppure soluzioni green come Beeopak, pellicola alimentare a base di cera d’api, lavabile e riutilizzabile per circa un anno. Anche la carta forno ha un suo alias naturale che si può autoprodurre con una miscela di olio, burro e farina da spennellare sul fondo della teglia per impedire al cibo di attaccare durante la cottura.
Per ridurre gli sprechi di cibo, una delle priorità indicate nell’Agenda 2030 dell’Assemblea dell’Onu per lo sviluppo sostenibile, è buona regola pianificare i pasti di tutta la settimana e non cucinare più del necessario, come ha ricordato persino Papa Francesco nell’enciclica “Laudato si’”. Quando siamo fuori casa e avanza qualcosa nel piatto tirare fuori dalla borsa la Doggy Bag o chiedere un contenitore da asporto al cameriere è tutt’altro che volgare – in Francia è addirittura un obbligo – considerando che un terzo del cibo cucinato nei ristoranti viene buttato.
È evidente che la spesa rappresenti un punto nodale per minimizzare gli sprechi. Prima di entrare al supermercato servirebbe una seduta di autocoscienza. Cosa mi serve? Cosa posso autoprodurre? Come potrei cucinare gli avanzi del giorno prima? Le nostre nonne e bisnonne che andavano di rado a fare la spesa ma erano abituate a gestire le eccedenze dell’orto ci hanno lasciato in eredità un patrimonio di maestria culinaria: dalle verdure sott’olio al minestrone, dalla frittata di spaghetti alle polpette, la cucina italiana è un monumento al recupero gastronomico.
Ma c’è chi va oltre e recupera anche le parti di frutta e verdura considerate, a torto, meno nobili. Tra le sostenitrici del movimento “only taste, zero waste” c’è Lindsay-Jean Hard, giornalista della rivista statunitense Food52 che nel suo libro Cooking with Scraps insegna come ottimizzare il buono che c’è in quello che di solito buttiamo, torsoli e bucce comprese (ne abbiamo parlato anche noi). Ottantacinque ricette che superano l’immaginazione: steli di prezzemolo che aggiungono sapore a un fresco taboulè di verdure, acqua dei fagioli in scatola usata come addensante per la maionese vegana, bucce di banana che si trasformano in una torta fragrante. Senza fanatismi perché la strada di chi sceglie la sostenibilità è in salita; basti pensare a quante variabili si presentano nel momento in cui dobbiamo fare la spesa: tra packaging più o meno compostabili, presenza di plastiche monouso, filiera certificata, stagionalità, ingredienti e metodi di produzione rischiamo di tornare a casa con la sporta vuota.
Quando si parla di scelte bio non è necessario puntare alla perfezione, piuttosto secondo Hard «fare il meglio che possiamo con le possibilità che abbiamo», consapevoli che ciascuno, nel suo piccolo, può fare la differenza. Ricordando il consiglio di Marianna Mea: «Ogni volta che acquistiamo un prodotto è un po’ come se votassimo: in altre parole, stiamo dicendo al mercato di produrlo proprio così perché ci piace. Scegliamo sempre molto attentamente a chi dare la nostra preferenza».