ExtravergineFilerà tutto liscio come l’olio?

La situazione non era certo rosea e il coronavirus ha fatto il resto: la salute del mondo olivicolo italiano è precaria ma tante sono le iniziative che cercano di riportarla in crescita provando a reagire e a diversificare, e tornando ad essere un riferimento per i mercati internazionali

Ulivo INCUSO_Linkiesta

Per inquadrare la situazione e ipotizzare il futuro del settore dell’olio d’oliva italiano occorre fare una doverosa premessa. Covid-19 o non Covid-19, i problemi strutturali e commerciali erano noti da tempo, nonostante il prestigio e produzioni qualitativamente superiori – che però oscillano tra il 2 e il 4% dell’intera produzione nazionale, con volumi che nel 2018 hanno superato di poco le 12 mila tonnellate. Parliamo di un settore, poi, che non è del tutto autosufficiente, e dove le importazioni – oltre ad alimentare le industrie di imbottigliamento per l’export – servono anche a soddisfare la domanda interna. In Italia è infatti presente un’importante industria di imbottigliamento, che rende il nostro Paese il naturale crocevia degli scambi internazionali, nonché il principale importatore e il secondo esportatore mondiale; a livello produttivo siamo invece generalmente al secondo posto, con un volume che è un quarto di quello spagnolo. In tema di mercato, dunque, l’Italia subisce l’andamento del mercato iberico salvo soprattutto per i prodotti più di massa, mentre riesce a sganciarsi su quelli di maggior qualità.

Occorre poi operare un’ulteriore distinzione, tra le grandi aziende che riforniscono la GDO e le piccole/medie che, invece, non distribuiscono attraverso tale circuito. Le prime non hanno avuto fretta di approvvigionarsi perché lo hanno fatto nei mesi precedenti alla pandemia a prezzi convenienti, fronteggiando una domanda piuttosto vivace grazie all’aumento dei consumi domestici e alla ritrovata vocazione culinaria degli italiani durante il lockdown. A soffrire sono state le seconde, che non hanno rapporti commerciali con la GDO e che hanno visto azzerati gli ordini da parte dell’HoReCa e l’indotto del turismo, solo ora in lievissima ripresa sebbene alle prese con una difficile ripartenza.

Secondo Coldiretti, l’emergenza coronavirus ha causato un crack da 2 miliardi di euro all’olio d’oliva ‘made in Italy’: a pesare sul comparto, il prolungato blocco del canale della ristorazione, con un impatto devastante a livello economico, occupazionale e ambientale per una filiera che conta oltre 400mila aziende agricole specializzate in Italia e il maggior numero di oli extravergine a denominazione in Europa (43 Dop e 4 Igp), con un patrimonio di 250 milioni di piante e 533 varietà di olive, il più vasto tesoro di biodiversità del mondo.

A incidere sulle imprese olivicole italiane è anche il crollo del 44% dei prezzi pagati ai produttori, scesi a valori minimi che non si registravano dal 2014. Dalla fine della campagna scorsa e per tutto il primo trimestre del 2020, il mercato ha fronteggiato una tendenza flessiva dei listini nazionali e internazionali malgrado una flessione del 5% della produzione mondiale, dinamica favorita dalle abbondanti disponibilità mondiali sostenute dalle scorte spagnole, le stesse che hanno indotto l’Unione Europea a concedere lo stoccaggio privato. I listini italiani hanno sofferto di più a causa del maggiore rialzo sperimentato l’anno precedente: i prezzi dell’extravergine italiano nel primo trimestre del 2020 evidenziano, secondo le rilevazioni Ismea, un -44% rispetto al 2019, mentre lo stesso confronto per il prodotto spagnolo indica un -21%. Tradotto in valore assoluto, nel primo trimestre 2020 la quotazione media dell’extravergine di oliva italiano è di 3,1 euro/kg, a fronte dei 5,61 euro del primo trimestre del 2019. Per la Spagna, invece, attualmente la media è attestata a 2,13 euro/kg contro i 2,68 euro dello stesso periodo dello scorso anno.

Nella Puglia settentrionale a gennaio i prezzi sono scesi sotto la soglia dei 3 euro/kg, così come sulle principali piazze della Calabria; il mercato siciliano, pur mostrando flessioni notevoli, non è mai andato sotto i 4 euro/kg. Alla luce di una produzione più generosa rispetto al passato, si stima che la ripresa partirà principalmente da Puglia (che rappresenta la regione più significativa in termini di volumi, 51% in media) e Calabria (dove si hanno volumi più che triplicati rispetto al 2018, sopra la media degli ultimi quattro anni); rimangono stabili Sicilia (sopra le 34mila tonnellate), Campania e Sardegna; incrementi contenuti in Abruzzo, Molise, Lazio e Marche; produzioni invece inferiori in Toscana e Umbria. La Commissione Europea prevede una produzione comunitaria per l’intera campagna 2019-2020 di 1.906mila tonnellate (-15,7%), consumi per 1.382mila tonnellate (-4,1%) e scorte di fine anno per 693mila tonnellate (-11,5%): numeri negativi su tutta la linea, che in Italia fanno preoccupare le realtà più piccole. Coldiretti a tal proposito ha elaborato un piano salva ulivi con un pacchetto di misure straordinarie a sostegno delle imprese agricole e frantoi che operano in filiera corta, oggi maggiormente a rischio, con lo sblocco immediato delle risorse già stanziate per l’ammodernamento della filiera olivicola, anche attraverso la semplificazione delle procedure.

Le rogne, però, non vengono mai sa sole: la presenza sul mercato mondiale di abbondanti scorte di olio ‘vecchio’ spagnolo, spesso spacciato come italiano a causa della mancanza di trasparenza sul prodotto in commercio, costituisce un’ulteriore fonte di affanno. Sulle bottiglie di extravergine ottenute da olive straniere in vendita nei supermercati non è immediato leggere le scritte ‘miscele di oli di oliva comunitari’, ‘miscele di oli di oliva non comunitari’ o ‘miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari’ obbligatorie per legge, poiché riportate in caratteri molto piccoli, posti dietro la bottiglia e, in molti casi, in una posizione sull’etichetta che le rende difficilmente visibili. Morale, al danno economico si somma un enorme danno d’immagine, che rischia di rovinare i buoni risultati ottenuti a livello produttivo grazie a una quantità di 365mila tonnellate – più che raddoppiata rispetto alla disastrosa annata precedente (175mila tonnellate), ma ancora sotto la media del decennio. «L’olio di qualità, le eccellenze Dop, biologiche, monocultivar e Igp, che sono la ricchezza del nostro territorio, non vengono vendute proprio nel periodo più importante dell’anno: pensando che tutto si risolva presto, quindi in modo ottimistico, perderemo come minimo il 40%», afferma Giosuè Catania, presidente della cooperativa agricola di produttori olivicoli Apo di Catania, che si occupa di produzione e vendita di olio extravergine di oliva con circa 17mila soci con uliveti nelle provincie di Catania, Siracusa e Ragusa. La vera sfida su cui si fonderà la ripresa, continua Catania, non è sui mercati locali, bensì esteri: «La Spagna, maggiore produttore di olio d’oliva, può in questo momento rubarci gli spazi commerciali internazionali. Dobbiamo subito ripartire per non perdere i contratti con grossi buyer e importatori».

Un ruolo fondamentale lo giocheranno le esportazioni, come spiega Massimo Fia della cooperativa Agraria Riva del Garda in Trentino: «per fortuna l’estero inizia ad aprire di nuovo le sue frontiere. Taiwan, Cina, Thailandia, Dubai, Europa del Nord, USA, nostri clienti abituali, rappresentano il 20% del fatturato totale». Il rapporto del Centro studi di Confagricoltura parla chiaro: senza l’emergenza Covid-19, l’export del ‘made in Italy’ agroalimentare verso i Paesi dell’Unione Europea sarebbe aumentato in modo rilevante nel 2020. Il mese di gennaio aveva infatti evidenziato un aumento del 4% e del 10% in febbraio, crescita però annullata quando la pandemia si è diffusa in tutta l’Europa (- 10% a marzo), con le conseguenti restrizioni agli spostamenti delle persone e con la chiusura delle attività di ristorazione, caffetteria e ospitalità turistica. «L’olio EVO di qualità è sicuramente uno dei prodotti di eccellenza che l’Italia esporta in tutto il mondo» – conferma Riccardo Scarpellini, Presidente del Consorzio Opera Olei – «ma la pandemia non ha aiutato il settore. L’importante adesso è saper reagire e diversificare la propria proposta cercando di coinvolgere anche nuove categorie di utenti».

E il coinvolgimento passa, per forse di cose, dallo strumento diventato in parecchi casi un’ancora di salvezza, il web: «crediamo molto nelle nuove modalità di approccio al cliente che favoriscono il contatto diretto, come le vendite online e per corrispondenza, che se ben sfruttate potrebbero portare a una nuova e più ampia apertura in questa direzione», racconta Donato Conserva dell’omonima azienda agricola a Modugno, Bari. Dello stesso parere anche Domenico Fazari di Olearia San Giorgio a San Giorgio Morgeto, Reggio Calabria: «sarà fondamentale, nel prossimo futuro, dare delle attenzioni particolari all’e-commerce. È una forma di mercato del tutto innovativa in particolare per l’alta qualità. È necessario tuttavia un paletto: spesso il digitale è scenario di guerra di prezzi, condizione che non va a nozze con i prodotti artigianali e di pregiata qualità». Da qualsiasi parte si guardi il futuro, le parole d’ordine sembrano relazione, fiducia e proattività: «la ripresa sarà timida e lenta», prevede Giorgio Franci del Frantoio Franci, da Montenero d’Orcia, «e per questo sarà importante riscoprire, laddove si fossero persi, il valore e la centralità del cliente e il rispetto del fornitore: è proprio grazie alla continuità e alla qualità di queste relazioni che si potrà tornare a lavorare al massimo dell’efficienza». Sempre Franci, intervistato dal Corriere della Sera, sostiene di stare facendo tutto «come se fosse un’annata normale, ma so anche che normale non sarà. Il nostro importatore cinese ha detto che quando supereremo questa fase saremo molto più forti, e così sarà. Si risveglierà la coscienza in chi produce qualcosa di buono nel rispetto dell’ambiente, ma chi prima questa coscienza non ce l’aveva non l’avrà nemmeno dopo, e speriamo che il mercato se ne accorga». Gli fa eco Salvatore Cutrera dei Frantoi Cutrera di Chiaramonte Gulfi, Ragusa: «Cambieranno i mercati e le abitudini, cambieranno forse i clienti. Ma il cambiamento, se ben interpretato, oltre ad indiscusse perdite, porterà sicuramente con sé nuove opportunità, la sfida adesso è saperle cogliere».

Andrea Sisti, Presidente della World Association of Agronomists, dalle pagine del Corriere della Sera lancia un doveroso allarme: «la produttività degli oliveti italiani è bassa proprio a causa di carenze strutturali, sia dei limiti gestionali che nell’applicazione delle più recenti acquisizioni della ricerca sulle pratiche colturali». Nel nostro Paese, insomma, siamo all’avanguardia nella ricerca sia agronomica che tecnologica per l’estrazione dell’olio, «ma questa attività deve essere sostenuta e promossa se si vuole davvero accrescere e migliorare l’efficienza del sistema». L’analisi del territorio evidenzia infatti la disponibilità di aree potenzialmente vocate per un’eventuale espansione della coltivazione dell’olivo, che – se utilizzate nel rispetto delle strategie colturali applicabili – consentirebbe di incrementare la produzione nazionale di olive e di olio extravergine di oliva, senza accrescere la pressione sulle risorse naturali e sulla risorsa idrica. Sarebbe un grosso investimento, chiaro, per di più da effettuare in un momento storico assai faticoso e difficile, ma ne va della vita stessa dell’olivicoltura, un settore che – dal Garda al Salento, dalla Sicilia al Veneto – per superare il dramma legato al Covid-19 e le altre sfide che presto o tardi arriveranno, deve immaginarsi a riprogettare il proprio ruolo.

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