Gli europei producono più rifiuti elettronici di tutti al mondo. Lo racconta il “Global E-waste Monitor 2020”, il report delle Nazioni Unite che denuncia un record mondiale: 53,6 milioni di tonnellate (Mt) che potrebbero diventare 74 Mt entro il 2030, con un conseguente danno ambientale e di salute facilmente immaginabile a causa degli additivi tossici e delle sostanze pericolose come il mercurio. Un flusso in crescita continua, alimentato principalmente da tassi di consumo più elevati di apparecchiature elettriche ed elettroniche, brevi cicli di vita e poche opzioni di riparazione.
Andiamo a peggiorare: solo il 17,4% di questi rifiuti (classificati come Raee) è stato raccolto e riciclato. Ciò significa, scrivono gli analisti, che oro, argento, rame, platino e altri materiali recuperabili di alto valore – valutati in modo prudenziale 57 miliardi di dollari, una somma superiore al prodotto interno lordo della maggior parte dei paesi – sono stati per lo più scaricati o bruciati anziché essere raccolti per il trattamento e il riciclo.
Il numero di paesi che hanno adottato una normativa nazionale sui rifiuti elettronici è aumentato da 61 a 78 tra il 2014 e il 2019. In molte regioni, tuttavia, i progressi normativi sono lenti, l’applicazione è bassa e la gestione è onerosa.
Le quantità di rifiuti elettronici stanno aumentando 3 volte più velocemente della popolazione mondiale e il 13% più velocemente del PIL mondiale negli ultimi cinque anni.
Per dare un’idea della gravità di quanto riportato dalle Nazioni Unite, basti pensare che i rifiuti elettronici dell’anno scorso pesavano più di tutti gli esseri umani adulti in Europa, o come 350 navi da crociera delle dimensioni della Queen Mary 2, abbastanza per formare una linea lunga 125 km.
In questo quadro, il vecchio continente registra un primato in negativo. In media, gli europei producono 16,2 kg all’anno di rifiuti elettronici, mentre l’Asia e l’Africa hanno generato rispettivamente solo 5,6 e 2,5 kg pro capite.
Uno studio recente dell’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) concentrato sull’utilizzo di quattro prodotti elettronici, ha inoltre mostrato come tutti abbiano una vita media effettiva che è inferiore di almeno 2 o 3 anni rispetto a quella desiderata. In sostanza: il cittadino europeo preferisce buttare il proprio smartphone invece di ripararlo.
Negli ultimi anni in Europa sono nati veri e propri movimenti attorno al principio dell’obsolescenza programmata, ovvero il processo con cui le aziende di produzione esortano i consumatori ad acquistare e sostituire in modo accelerato, nuovi prodotti che siano essi di natura tecnologica o di altra filiera. Dopo un lungo dibattito, l’Unione Europea ha previsto, nell’ultimo Circular Economy Action Plan della Commissione europea, varato a marzo 2020, un nuovo diritto per il consumatore, il diritto alla riparazione, e ha assegnato alla stessa Commissione il compito di avanzare proposte legislative e regolamentari nel 2020 e nel 2021 nell’ambito delle strategie industriali della Ue.
In Italia, nel caso il prodotto risulti difettoso, il consumatore ha diritto a chiedere la sua riparazione o la sostituzione entro due anni dalla consegna del bene ed è previsto che nel manuale di istruzioni del prodotto ci siano informazioni precise sulla durata di vita del prodotto. Ma la scelta tra riparazione, sostituzione, rimborso non è ugualmente conveniente.
«Quando gli oggetti che possediamo diventano obsoleti, o hanno bisogno di parti di ricambio, ci rendiamo subito conto che ripararli o aggiornarli può non essere possibile oppure avere un costo troppo elevato» afferma Ilaria Fontana, Vicepresidente del Gruppo Movimento 5 Stelle alla Camera, parte della commissione ambiente, territorio e lavori pubblici e promotrice del progetto di legge “Diritto alla riparazione”
«Ogni consumatore deve avere, al momento dell’acquisto il Diritto alla riparazione. Ovvero la garanzia di poter prolungare la vita utile del bene che sta per comprare. Il mio progetto di legge depositato alla Camera punta a creare un mercato di pezzi di ricambio integrato nei centri di raccolta comunali e nei piani di gestione dei rifiuti regionali. Ma anche semplificare il contesto normativo esistente consentire che la riparazione abbia gli stessi requisiti che esistono oggi per il riuso».
Sta lentamente aumentando la consapevolezza sull’importanza di superare il modello Usa e Getta. La diffusione della cultura della riparazione ha apportato un secondo elemento culturale fondamentale: il maggior controllo e la più grande autonomia del cittadino di fronte alla tecnologia, a chi la progetta, produce, distribuisce e offre assistenza.
«In Italia manca una distinzione effettiva tra beni usati e beni riparati o ricondizionati» continua Fontana «Un bene donato a un centro di raccolta non viene considerato rifiuto, mentre un bene che deve essere ricostruito rientra tra le operazioni di recupero del Testo Unico Ambientale ed è quindi un rifiuto a tutti gli effetti. Ora bisogna preparare il terreno affinché le nuove tecnologie e le nuove attività lavorative legate all’economia circolare prendano piede: basterebbe pensare a quale importanza avrebbe per le piccole aziende poter contare sugli acquisti verdi delle pubbliche amministrazioni, il cosiddetto Green public procurement (GPP), ovvero la possibilità per piccoli progetti su scala quasi artigianale di fare il grande passo verso una vera e propria industrializzazione».
Il Piano Nazionale sul GPP prevede infatti dei Criteri Ambientali Minimi (CAM) da applicare anche per l’acquisto di prodotti elettronici, in modo da poter contare sulla Pubblica Amministrazione per beni più longevi e ambientalmente più sostenibili. L’Italia sta recependo il primo pacchetto di direttive europee sull’economia circolare: nuove norme in materia di gestione dei rifiuti che alzando i target minimi da raggiungere spingeranno verso la riduzione della produzione di rifiuti e quindi anche di una maggiore longevità dei prodotti