Una email immette nell’atmosfera circa 4 grammi di CO2, se a quella stessa email viene allegato un file di grandi dimensioni le emissioni nell’aria possono arrivare fino a 50 grammi. Così un lavoratore che in una giornata invia e riceve un centinaio di mail a fine anno avrà introdotto nell’atmosfera la stessa quantità di anidride carbonica che avrebbe immesso volando in aereo da Londra a Bruxelles. Online si possono trovare dei calcolatori che stimano quanto inquiniamo nel nostro lavoro in base all’utilizzo che facciamo della posta elettronica: come Cwjobs, ad esempio.
Ogni email inviata e ricevuta utilizza elettricità, che è quella che fa alimenta il pc, ma anche quella del router per la connessione internet. I file vengono poi archiviati negli archivi digitali, in cloud. Questi hanno strutture fisiche enormi che hanno bisogno di energia per rimanere in funzione: sono i data center, le colonne portanti degli archivi del mondo digital. Qui vengono immagazzinate email, foto, video, musica e così via.
I data center di tutto il mondo consumano circa il 4 per cento dell’elettricità prodotta a livello globale. Per avere un termine di paragone: competono con l’industria aerea in fatto di emissioni di anidride carbonica. Perché non c’è solo l’elettricità che consumano i data center per archiviare le informazioni, ma anche quella necessaria per gli impianti di raffreddamento che li mantengono attivi.
Nella prima metà del 2020 il consumo di dati online è aumentato vertiginosamente. I report di Audiweb rivelano che per il mese di aprile si registrano «valori in crescita rispetto al periodo pre-covid, con 44,1 milioni di utenti unici mensili, il numero di persone che hanno utilizzato internet ad aprile resta vicino al livello di marzo, superiori a quelli di febbraio e dell’anno precedente», confermando il trend.
«Durante e dopo il lockdown è diventato ancora più importante il ruolo di internet nella nostra vita, dalle nuove modalità di lavoro da remoto alle piattaforme di streaming. Quando ci rilassiamo guardando un film o un programma sulle queste piattaforme, però, probabilmente non sappiamo che, inconsapevolmente, stiamo inquinando il pianeta in cui viviamo: questi servizi hanno infatti un enorme impatto ambientale, in particolare di emissioni di CO2 e contribuiscono quindi ad alimentare il cambiamento climatico», dice a Linkiesta Luca Iacoboni, responsabile campagna Energia e Clima di Greenpeace.
In un quadro generale, il lockdown ha avuto effetti positivi immediati sulla qualità dell’aria – ad esempio riducendo di circa il 40 per cento il biossido di azoto (NO2) presente – ma l’aumento del consumo di dati è stato verticale.
C’entra, ovviamente, anche l’aumento dello smartworking: permette di risparmiare su molti fattori inquinanti come l’utilizzo di automobili, ma lavorando da remoto anche le comunicazioni minime o informali che si svolgevano in ufficio si sono trasformate in dati informatici.
Se prima della pandemia in Italia lavoravano da casa o comunque da remoto 570mila persone, con un incremento del 20 per cento tra il 2018 e il 2019, con il lockdown quel numero dovrebbe essere salito a circa 8 milioni: quattordici volte tanto (come ha rivelato una indagine sullo smartworking promossa dalla Cgil).
E come lo smartworking, nei primi mesi del 2020 anche tante altre azioni quotidiane si sono trasformati in consumo di dati. Un esempio sono le lezioni scolastiche e universitarie, diventate videoconferenze. Oppure gli ospiti negli show televisivi, presenti solo con collegamenti in diretta. O ancora lo shopping: secondo un rapporto di Agi-Censis l’ecommerce italiano avrebbe registrato un incremento di acquisti del 25 per cento rispetto all’anno precedente. Mentre Netflix ha dichiarato che gli abbonati al suo servizio streaming sono aumentati di circa 16 milioni nel primo trimestre dell’anno.
Il 2020 è stato un acceleratore per un trend in crescita costante negli ultimi anni. Infatti le grandi aziende che stoccano quantità enormi di dati e informazioni in cloud erano già alla ricerca di soluzioni sempre più ecosostenibili per i loro data center.
Da Facebook che ha aperto dei data center nel nord della Svezia, a Lulea, per sfruttare le temperature rigide nei pressi del Polo, a Microsoft che ha pensato di immergere i suoi server nel mare che circonda le isole Orcadi scozzesi, fino a Apple che sta provando ad alimentare i data center con energie rinnovabili. L’aumento dei servizi digitali nella nostra quotidianità è pressoché inevitabile, e inevitabile è anche un impatto diretto sull’ambiente dei dati che si trasformano in emissioni.
«Greenpeace chiede da tempo ai grandi colossi di questo mercato – Google, Apple ma anche Netflix, Disney+ (che ora ha aperto un nuovo canale di streaming) – di alimentare i propri dataserver con energia al 100% rinnovabile, acquistandola ma anche investendo direttamente in impianti fotovoltaici o impianti eolici. Perché queste grandi aziende che portano un servizio nelle nostre case devono farlo senza inquinare il mondo in cui viviamo», dice Luca Iacoboni di Greenpeace.