Il tema delle relazioni centro-periferia da tempo è diventato, in tutti i Paesi, oggetto di forti tensioni istituzionali, che in qualche caso sfiorano le forme di aperto conflitto.
In Italia, in particolare proprio nel corso della gestione dell’epidemia, a molti è parso che tali tensioni abbiano superato il livello di guardia, precedute da diversi episodi di forte contrapposizione, dalla gestione locale degli sbarchi di immigrati alla lunga e mai conclusa sequenza di forme addizionali di autonomia a singole Regioni (il cosiddetto «regionalismo differenziato»).
Sembra dunque assai opportuno porsi qualche domanda: quanto di tutto questo è riferibile all’emergenza sanitaria e quanto invece nasce da problemi precedenti? E, in ogni caso, che fare (ivi compreso, che cosa non fare) per venirne a capo o almeno riportare le cose a un livello accettabile?
Si tratta di buone domande legate a preoccupazioni del tutto fondate. Nel cercare di rispondere è bene però chiarire in via preliminare alcuni punti.
Intanto il sistema delle autonomie territoriali non è certo limitato alle Regioni e ai loro rapporti con lo Stato: altrettanto importanti, specie per la storia italiana, sono i comuni e le città.
Possiamo continuare per comodità (e lo faremo) a usare il binomio centro-periferia, sapendo però che intendiamo Regioni, città, sistemi locali, e consapevoli che si tratta di una terminologia non solo indeterminata nei contenuti (quale centro? e quante periferie?) ma arcaica e concettualmente fuorviante perché la periferia è un dato definibile solo in rapporto a un altro elemento – il centro, appunto – che ne determina funzioni e contenuti (la cosa è ancora più chiara nell’equivalente francese banlieue, lo spazio vuoto circostante le mura nel quale appunto era «bandito» costruire o coltivare il terreno per agevolare la difesa della città).
Mentre Stato e realtà territoriali, specie in Italia e per la sua storia, sono ancora sistemi a bassa integrazione reciproca.
Inoltre sull’asse centro-periferia le relazioni tra sistemi politici e tra sistemi amministrativi, che della «periferia» costituiscono il cuore, sono diverse: per lungo tempo tenui le prime, di forte omologazione le seconde.
C’è stato un momento (anni Novanta) in cui potevano riallinearsi lungo l’asse Bruxelles-sistemi locali, ma la sterzata intergovernativa della Ue e la deriva tutta domestica della gestione del debito pubblico (e narrazione relativa) hanno potentemente rilanciato il nostro «centro» nella sua versione più tradizionale: la Roma ministeriale e amministrativa. E questo è rimasto.
Prima di considerare la crisi attuale, è dunque dai caratteri del reticolo istituzionale che conviene partire, notando però da subito un dato. I rapporti Stato-Regioni hanno infatti conosciuto fin dall’inizio momenti anche tesi, ma una serie di elementi recenti sposta il discorso dalle relazioni istituzionali al terreno del sistema politico per la crescente soggettività dei presidenti delle Regioni.
La lettera aperta di protesta nei confronti del presidente del Consiglio inviata il 29 aprile 2020 al presidente della Repubblica dai presidenti di 11 Regioni del centrodestra (12 con quello della Provincia di Trento) è solo uno degli esempi più recenti. E non si tratta di un caso isolato.
Il crescendo dei toni e soprattutto l’uso di strumenti istituzionali in modo conflittuale, non limitato a controversie lungo l’asse centro-periferia, ha negli ultimi tempi una sua continuità: dagli «atipici» referendum popolari indetti da Lombardia e Veneto a sostegno delle proprie iniziative di autonomia differenziata (2017-2018) alle richieste di referendum abrogativo in senso maggioritario della legge elettorale presentate da 8 Regioni a governo leghista (2019), dichiarate inammissibili dalla Corte costituzionale nel gennaio 2020.
La lettera delle 12 Regioni è dunque solo l’ultimo episodio, ma il cambio di passo è notevole perché pratica due registri diversi: da un lato, si agisce sul centro in funzione del rafforzamento della propria autonomia; dall’altro, e in senso opposto, si sacrifica quest’ultima a un pesante e stretto gioco di squadra volto esclusivamente a rafforzare la posizione della propria parte politica nella dialettica dei rapporti tra maggioranza e opposizione al centro.
Come del resto è avvenuto, questa volta per dinamiche nazionali (Salvini e governo Conte), nelle elezioni dell’Emilia-Romagna. Il che non è irrilevante e qualche problema lo pone sul terreno della stessa autonomia regionale, non fosse altro per il fatto di generare contrapposizioni anche tra le Regioni, come nel caso dell’autonomia differenziata.
Eppure, ciò che appare contraddittorio dal lato dell’autonomia si ricompone in un’indicazione univoca e questa sì del tutto inedita: i presidenti di Regione (per la stampa, governatori), che salvo i primi anni Settanta hanno giocato un ruolo marginale a livello nazionale, hanno assunto negli ultimi anni un crescente e autonomo peso che le vicende della pandemia hanno accentuato.
Aggiungiamo poi che grazie al sistema dell’elezione diretta e alla saldatura del loro mandato con quello dell’Assemblea regionale i presidenti godono di una stabilità e una continuità inimmaginabili a livello centrale. In breve, solide premesse per un ruolo politico più ampio.
Non tutti i problemi però nascono oggi. Anzi, la maggior parte va riferita al passato e all’impianto di base, in particolare alla ripartizione di compiti tra i vari attori del sistema perché è da qui che più facilmente nascono conflitti.
Il che ci indica subito che la cifra prevalente del day after dell’epidemia per quanto riguarda il terreno istituzionale sarà determinata dagli ingredienti del giorno prima.
Partiamo dunque dal problema più evidente, l’intreccio spesso confuso e talvolta inestricabile delle competenze.
In tutti gli ordinamenti «composti», cioè articolati su un sistema istituzionale di governo multilivello che va dalla Confederazione (come quella elvetica) o dallo Stato federale alle diverse forme di Stato autonomistico, si pone la questione delle competenze e dei criteri per regolarne la ripartizione e il funzionamento.
Proprio qui sta il problema. Dal dopoguerra nel nostro Paese le relazioni tra centro e autonomie territoriali sono state interessate da due progetti (peraltro, ben diversi) di radicale innovazione istituzionale in senso autonomistico, lo Stato regionale della Carta del 1948 e il cosiddetto federalismo temperato della riforma costituzionale del 2001, e nello stesso tempo da altrettante (e opposte) forti dinamiche di centralizzazione decisionale e amministrativa: la prima nel 1970 fece da contrappeso all’attuazione dell’ordinamento regionale, ritagliandone le competenze non in funzione dei compiti del futuro ma in base all’assetto amministrativo del passato, aggiungendo, per sovrappiù, la centralizzazione dell’intero prelievo fiscale; la seconda, a partire dai primi anni del nuovo secolo, basata su un imponente (ri)accentramento decisionale legittimato dall’emergenza di turno: finanza pubblica, crisi del 2008, immigrazioni e crisi internazionali, calamità (sisma del 2016), cui si aggiunge quella odierna del Coronavirus.
È chiaro che ognuno dei due modelli ha una propria strumentazione per risolvere il problema della ripartizione delle funzioni e cioè la premessa per evitare disfunzioni, conflitti e facili fughe di responsabilità.
Il primo, quello del 1948, fortemente garantistico, basato sulla rigida separazione tra Stato e Regioni; il secondo, riforme amministrative della fine anni Novanta e nuovo titolo V Cost. del 2001, basato sul criterio opposto della interdipendenza, flessibilità e cooperazione.
Ma se i criteri regolatori delle relazioni centro-periferia sono troppi e contrastanti, la conclusione è una sola: troppi modelli, nessun modello prevalente, nessun criterio affidabile. Cioè un assetto senza regole e senza responsabilità precise. Forse non era questo l’obiettivo, certo ne è il risultato.
Veniamo ora, sia pure per sommi capi, agli aspetti più rilevanti legati all’emergenza Covid-19. Con l’avvertenza di tenere distinte le (prime) valutazioni sui fatti accaduti dalla fine di febbraio 2020 ad oggi (fine maggio) e le (prime) considerazioni che se ne possono trarre sui caratteri e sull’impianto stesso del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Aggiungendo che in questo caso l’asse centro-periferia corrisponde alla sua accezione più limitata, quello Stato-Regioni.
Sulla prima fase e l’operato del centro, a parte una complessiva considerazione positiva e di adeguatezza nel merito, sul piano istituzionale non c’è molto da dire.
La preminenza, pienamente legittimata dalla Costituzione e dai principi dell’ordinamento, di un solo interesse pubblico (il contrasto al contagio) su tutti gli altri si è tradotta nell’immediatezza di un processo centripeto di condensazione di potere e di superamento di tutto il regime normativo ordinario, come del resto è proprio nei provvedimenti di emergenza, i cui strumenti base sono stati la generalità dei divieti salvo specifiche deroghe (tutto vietato, salvo…) e l’uniformità spazio-temporale estesa all’intero territorio.
Sul piano istituzionale si è trattato di provvedimenti indiscutibilmente dovuti e adeguati, anche se vanno annotati almeno due problemi.
Il primo è sostanziale, la ripetuta difficoltà del centro di interpretare correttamente il proprio ruolo sia nelle cose da evitare (tutto ciò che si avvicina alla gestione diretta, salvo accertate e insuperabili deficienze locali), per le quali non è strutturalmente attrezzato, che in quelle invece da garantire (in particolare comunicazione, coordinamento, gestione dati, adozione di criteri uniformi e riconoscibili per identificare e gestire contagi, isolamenti, trattamenti intensivi, decessi).
Il che ha generato una massa di dati largamente inattendibili (v. ad es. F. Sarzanini e A. Trocino, “Gestione dati”, «Corriere della Sera», 23-24.5.2020) e una comunicazione pubblica spesso sconfortante.
L’intervento diretto del centro è risultato ancor più problematico in ragione della consueta frammentazione di sedi e di strutture ordinarie e speciali (Mercuri e le task force, Protezione civile, Inps, Inail, Istituto superiore di sanità e naturalmente i ministeri di settore) e qualche inevitabile sovraesposizione, come la singolare (sul piano istituzionale) sottoscrizione avviata dalla Protezione civile a sostegno del Ssn.
Il secondo problema riguarda invece, considerando la straordinaria durata ed estensione degli interventi, la veste giuridica con cui i provvedimenti sono stati adottati.
Il blocco in tutto il Paese di diritti costituzionalmente garantiti protratto per mesi e operato con provvedimenti amministrativi monocratici (decreti del presidente del Consiglio, Dpcm) sulla base della iniziale dichiarazione dello stato di emergenza (31 gennaio 2020) e di esili basi legislative successive, pur totalmente fondato nel merito, solleva seri dubbi per la forma adottata ancor più giustificati dall’essere in gioco contemporaneamente due garanzie costituzionali di prima grandezza, affidate appunto alla riserva di legge: la difesa dei diritti fondamentali delle persone e il ruolo del Parlamento.
Tra l’altro, sempre in termini giuridici, un conto sono interventi d’urgenza limitati nel tempo e nello spazio la cui legittimità è valutabile esclusivamente in termini di rispetto dei principi (non delle singole norme) costituzionali e di coerenza con i criteri di adeguatezza (al pericolo o all’emergenza da affrontare), temporaneità e proporzionalità.
Altra cosa è estendere le stesse disposizioni per lungo tempo e per tutto il territorio nazionale perché questo ne mette in discussione l’adeguatezza e la proporzionalità, a rigore da escludere se viene disciplinato nello stesso modo e per lungo tempo un intero Paese malgrado tutte le specifiche diversità sul punto.
Per le Regioni il discorso è più complicato. Premesso che poco si sa al momento in ordine al versante (decisivo) delle relazioni tra Regioni e segmento regionale del Ssn (aziende sanitarie e presidi ospedalieri in particolare), è innegabile che l’immagine che è risultata alla gran parte dell’opinione pubblica, per la fortissima sovraesposizione mediatica (non proprio evitata…) e soprattutto per le plateali e ripetute contrapposizioni con il centro di alcune di esse, è stata quella di un quadro dalle tinte forti.
Soprattutto a forte e spesso cercata esposizione mediatica, proprio nel momento in cui la prima esigenza era quella della cooperazione. E questo ha provocato sui media dure critiche che presto si sono spostate sull’intero Ssn e la relativa architettura.
Il discorso è fondato solo in parte e la valutazione di insieme appare decisamente più sfumata. Intanto non si devono dimenticare importanti incertezze centrali (indotte, in più di un caso, da analoghe oscillazioni dei massimi organismi sovranazionali come l’Oms) rispetto alle quali alcune scelte regionali in altra direzione hanno permesso di raggiungere risultati decisamente migliori (Veneto).
L’emergere di tensioni risente inoltre dello schema normativo di base adottato dal governo – generalità dei divieti salvo specifiche deroghe (tutto vietato, salvo…) – con un ruolo delle Regioni di «scostamento» molto limitato nella prima fase poi più ampio e dai confini inevitabilmente incerti che ha portato l’attenzione generale a ritenere patologica, oltre alle incertezze sulle linee di confine, ogni diversità.
Da considerare infine che il protrarsi nel tempo di divieti dettagliati e uniformi ha portato tutte le Regioni, specie quelle con situazioni diverse o a contagi quasi assenti, a vivere con particolare tensione e disagio la sottoposizione a misure dettagliate e allo stesso regime delle situazioni più esposte. Il che, sul piano del rapporto con le proprie realtà e anche in termini strettamente giuridici di proporzionalità e adeguatezza, non può essere confinato alla sola litigiosità.
Molte riflessioni e commenti, infine, sono stati dedicati non alla crisi ma al «sistema» del Ssn, cui si rimprovera la prossimità alla politica regionale (difficile negare che il governo di servizi e strutture così rilevanti e l’80% del bilancio delle Regioni non lo giustifichi), l’eccesso di decentramento (arduo pensare che un servizio sanitario non debba esserlo o sottovalutare l’esistenza di forti cerniere – certo migliorabili – che proprio in questa materia legano al centro i livelli periferici), l’attenzione ai profili della spesa (è proprio il concorso a questi aspetti che ha consentito di preservarne per quanto possibile, in vent’anni di tagli di spesa pubblica, il carattere di universalità) e infine l’aziendalizzazione (l’unica amministrazione ad avere preso relativamente sul serio piani, programmi, aggiornamento del personale, manutenzione delle strutture, controlli di gestione). Anche qui sarebbe bene procedere in base alla nobile arte del distinguere.
Una prima costatazione: considerate le drammatiche condizioni nelle quali improvvisamente si sono venute a trovare le strutture sanitarie, va riconosciuto che le articolazioni periferiche del Ssn nel loro insieme hanno retto più di quanto era lecito attendersi, sia pure a costi altissimi per i pazienti e il proprio personale.
E se questo è avvenuto lo si deve non solo ad atti di vero e proprio eroismo, ma alla solidità che nel suo insieme il Ssn a partire dagli anni Ottanta ha saputo via via acquisire.
Dal punto di vista del sistema della pubblica amministrazione, e si potrebbero fare riferimenti imbarazzanti, si tratta infatti dell’unico segmento pubblico dedicato alla produzione di beni e servizi che proprio per il dato genetico di «amministrazione nazionale» (L. Torchia, “Le amministrazioni nazionali”, Cedam, 1988), cioè funzionalmente unitaria benché multilivello, ha meglio di altri fatto i conti con i problemi vecchi e nuovi posti dai mutamenti sociali e delle istituzioni, decentramento e relazioni centro-periferia comprese.
Detto questo, restano indubbiamente aperti problemi molto seri, al centro e alla periferia, che l’emergenza dell’epidemia ha sottolineato. Alcuni sono problemi di impianto, e vanno ripensati.
Fra questi, il principale è costituito dalla debolezza del rapporto tra articolazioni periferiche del Ssn e le istituzioni locali e i servizi sociali, cioè il territorio.
Le conferenze territoriali ad esempio, specie nelle aree metropolitane, di norma non sono sufficienti a garantire il coordinamento tra le due politiche di settore e tra queste e le città, a causa del peso assolutamente preponderante della Regione e delle strutture ospedaliere.
Ma i problemi principali, data anche la conformazione del Ssn, sono da riferire a difficoltà che, pur consumandosi sul territorio e con un forte contributo delle Regioni, vanno riconosciute al centro e in particolare alla scelta del modello ministeriale: uno schema, qui come altrove, difficilmente compatibile con una gestione (quasi) totalmente decentrata e la strutturale coabitazione tra burocrazie amministrative e saperi tecnico-professionali.
Lo testimoniano, in forma diversa ma con direzione univoca, il caso di un’agenzia tecnica di supporto per le situazioni di crisi (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, Agenas) rimasta a lungo inerte per contrasti tra Regioni e dichiarata debolezza del ministro della Salute; il mancato aggiornamento del piano nazionale pandemico; la passiva accettazione della sterzata delle riforme lombarde della sanità (leggi 31/1997, Formigoni, e 2015, Maroni) con cui si è imboccata una strada che al di là di ogni valutazione di merito (luci e ombre comprese, va detto) portava la Lombardia a superare per più di un aspetto il perimetro di base della riforma sanitaria del 1978.
Ma anche in questo caso la crisi di questi mesi, pur mettendo certamente in luce elementi critici specifici o l’esigenza di aggiornamenti importanti sia in sede regionale sia al centro, non sembra indicare problemi strutturali diversi da quelli riferibili alla ricaduta sulla sanità dei problemi generali irrisolti sull’asse centro-periferia. È allora a questi che conviene fare ritorno.
Se proviamo a osservare i rapporti istituzionali centro-periferia senza le numerose (e necessarie) tecnicalità ma con la distanza che una lunga vicenda come questa merita, vediamo che gli ingredienti di base sono gli stessi e che costante ne è la ripetizione: la necessità di una forte flessibilità istituzionale e amministrativa in corrispondenza dei (diversi) sistemi locali, l’impossibilità e/o l’incapacità di realizzarla, le profonde distorsioni che da questa impasse sono derivate sull’intero sistema.
Poiché non può essere messa in discussione né l’attualità della domanda sostanziale di autonomia e di flessibilità espressa dalle comunità e dai sistemi socio-economici locali (cfr. Società, in “L’Italia e le sue Regioni”, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, 4 voll., a cura di M. Salvati e L. Sciolla) né la stretta prescrittività delle disposizioni dettate in proposito (e largamente disattese) dalla Costituzione nel testo del 1948 e in quello del 2001, c’è allora da comprendere bene le ragioni di questa impasse di cui l’epidemia Covid-19 è solo l’ultima e più vistosa espressione.
La prima è di fondo: il modello autonomistico è variamente declinabile in termini di sistema politico e istituzionale ma richiede un passaggio obbligato: la profonda ridefinizione del sistema amministrativo esistente.
Può sembrare un aspetto minore, ma non è così perché in questo modo si rovescia un binomio fondante della storia patria, unità amministrativa (forte, alla francese) come garanzia dell’unità politica (debole) del Paese, che ha retto la nostra storia fin dal 1861 e che tuttora è profondamente radicato (cfr. G. Melis, “Fare lo Stato per fare gli italiani”, Il Mulino, 2014).
La altre due ne sono implicazioni, perché sono riferibili a questo schema sia la centralizzazione correlata al modello ministeriale sia i caratteri del processo decisionale. La debolezza del sistema politico e l’impraticabilità di prospettive strategiche hanno portato infatti le diverse maggioranze al governo a mantenere al centro il processo decisionale muovendo su due piani diversi.
Quello formale ed esplicito dell’uniformità e della rigidezza (unica variante: deroghe per emergenze), giustificata dalla garanzia di eguale trattamento (di territori, di categorie, di tendenze ecc.), ma soprattutto funzionale nel breve termine a ridurre al minimo il costo politico di priorità, scelte, responsabilità.
Quello più operativo, affidato a un sistema di micro-negoziazioni riservate basato sul metodo delle compensazioni reciproche differite nel tempo o spostate su altre risorse parallele, largamente praticato in tutti i tempi e le sedi: dalle Conferenze permanenti (Stato-Regioni e Stato-autonomie) (cfr. L. Lanzillotta, “Il paese delle mezze riforme”, Passigli, 2018) alle commissioni paritetiche Stato-Regioni a statuto speciale, ai ministeri sui fondi europei, alle varie commissioni tecniche fino alle sofferte vicende di quella per il cosiddetto federalismo fiscale (si veda L. Antonini, “Federalismo all’italiana. Dietro le quinte della grande incompiuta”, Marsilio, 2013), per interventi che portati alla luce avrebbero sollevato il problema dei principi e criteri di riferimento, e dunque richiesto scelte di fondo e quote aggiuntive di legittimazione politica non disponibili.
Questo è avvenuto su molti fronti, ma l’esempio della ripartizione al centro delle risorse finanziarie ordinarie e speciali per Regioni ed enti locali (cfr. G. Viesti, “Verso la secessione dei ricchi?”, Laterza, 2019), stretta tra le crescenti differenze territoriali di ogni genere e gli effetti dell’elezione diretta di sindaci e presidenti di Regione e relativa pressione, ne offre un esempio illuminante.
I casi accuratamente ricostruiti e documentati delle distorsioni e addirittura degli effetti moltiplicatori delle sperequazioni esistenti tra amministrazioni del Centro Nord e del Mezzogiorno nella ripartizione dei fondi del cosiddetto «federalismo comunale» sono sufficienti a provare come centralizzazione e opacità non risolvano i problemi ma ne confermino o addirittura ne aggravino la dimensione (si veda, ad esempio, sulla surreale gestione dei finanziamenti per i servizi all’infanzia erogati, basandosi sulla spesa storica, ai comuni del Centro Nord già ampiamente dotati, M. Esposito, “Zero al Sud”, Rubbettino, 2018).
La logica dei «due piani» ha dunque portato a costi molto alti. Non solo infatti ha bloccato i «nuovi» strumenti di governo della diversità e della differenziazione, perché a questo erano destinati strumenti quali gli indirizzi governativi, le «leggi cornice», l’intervento straordinario nel Mezzogiorno (anni Cinquanta-Sessanta), il cosiddetto federalismo fiscale, i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e i criteri di perequazione, le forme speciali di intervento (progetti) e di organizzazione nei sistemi locali, ma è stata causa diretta o indiretta di molto altro come il mantenimento inalterato del centro ministeriale e la grave divaricazione tra centro e istituzioni locali largamente irresponsabili sul terreno del prelievo fiscale, fattore non secondario della dimensione assunta dal debito pubblico.
Ma soprattutto il protrarsi nel tempo di questa mediazione ha portato a rimuovere la percezione dei profondi divari tra le varie parti del Paese riguardanti occupazione, reddito, emigrazione giovanile ed emigrazione sanitaria, apprendimento scolastico e altro fino a incidere sulle stesse dinamiche demografiche o le aspettative di vita.
Se l’amministrazione (intesa come saperi tecnico-amministrativi, memoria, adattamento a situazioni concrete di regole astratte, scelte) è insostituibile, non ha molto senso concentrare la richiesta di innovazione tutta in chiave di «semplificazione», intesa per lo più come disposizioni, apparati, procedure e controlli di cui in via derogatoria si ammette il superamento perché questo nega la premessa (il ruolo essenziale della Pa), perché alla base di tali previsioni vi sono esigenze che in questo modo restano insoddisfatte, e perché più in generale la deroga è la migliore garanzia per mantenere in piedi il sistema derogato. Cioè proprio l’immutabilità di ciò che si vorrebbe superare.
Ai molti e accesi fautori attuali del «modello Genova» e della sua estensione andrebbe forse ricordato che un semplice buco nella rete non è il modo più sicuro per ottenere una nuova recinzione.
Ma tutto ciò richiede anche di cambiare e soprattutto di rendere esplicito e di fondare sul terreno della identificazione e condivisione di valori, principi, regole chiare e altrettanto chiare responsabilità quanto per lungo tempo è rimasto nella sfera delle mediazioni di settore e dei costi occulti.
In fondo, l’elenco delle riforme dimezzate o fallite del nostro Paese è anche quello dei tentativi di portare allo scoperto ciò che era (e rimaneva) occultato. Il senso complessivo delle riforme Bassanini e del Titolo V Cost., la legge 42/2009 sul federalismo fiscale, le riforme Delrio così come la riforma Madia, fino alle proposte di regionalismo differenziato degli anni 2017-2019, è costante, sia pure per profili e con logiche anche molto diverse: uscire dal cono d’ombra della situazione esistente e ridefinire in modo esplicito e su nuove basi le relazioni centro-periferia. (Avere immaginato di affrontare un terreno così cruciale per tutto il Paese in una logica di mera negoziazione binaria Stato-singola Regione costituisce la critica di fondo alle proposte regionali di autonomia differenziata ex 116.3 Cost.).
Il gioco dunque era saltato ben prima dell’epidemia dando ragione a coloro (tra i quali chi scrive) che da tempo sostenevano che la riforma regionale era bloccata a metà strada e che era necessario (per tutti, non solo per le Regioni) considerare che relazioni centro-autonomie, riforma amministrativa, interventi nelle aree più deboli e in particolare (ma non solo) nel Mezzogiorno sono i tre lati della stessa figura.
Tre ingredienti tra loro non dissociabili ove la scelta operata sull’uno si riflette sugli altri e il non tenerne conto pregiudica ogni tentativo di innovare, quale che sia il terreno specifico prescelto.
Il che comporta o un deciso passo avanti verso la piena autonomia (e responsabilità) del combinato Regioni-comuni (prossima al modello tedesco), o una soluzione alla francese con un livello regionale a snodo tecnico-amministrativo e un solido (e flessibile) asse centro-autonomie locali. Con un unico dato comune a entrambi: una radicale ricostruzione del centro.
L’emergenza di questi mesi ha messo allo scoperto questi elementi, e ha fatto molto di più: ci ha posto davanti a scelte durissime (giovani-anziani; libertà-sicurezza; salute-economia; Nord-Sud) che impongono di enunciare i valori di riferimento. Lasciandoci con un solo punto fermo: il velo è caduto.
L’emergenza è planata su un terreno specifico (la sanità) relativamente più solido e strutturato come modello amministrativo di relazione centro-periferia ma infinitamente più delicato per ogni altro aspetto.
La cruda rappresentazione delle emergenze, dei rischi e delle grandi diversità tra aree del Paese ha provocato la rottura del sistema di mediazioni fin qui seguito, spostando quote importanti del processo decisionale al di fuori dalle sedi consuete e mettendo a nudo la necessità di esprimere i valori cui riferire scelte e responsabilità.
La soggettività politica dei diversi attori entrati in scena non è la causa ma la conseguenza di dinamiche avviatesi da tempo e oggi evidenti. Proprio qui nasce la considerazione conclusiva.
Si è indicata la lunga serie di elementi critici che impediscono da tempo (spesso da lungo tempo) un assetto equilibrato e riconoscibile dei rapporti centro-periferia ed è questo che il dilagare dell’epidemia ha trovato.
Ma quello che lascia è molto di più, non solo per l’effetto moltiplicatore della crisi sui problemi esistenti ma per l’apertura di nuovi fronti.
Il più delicato è il corto circuito tra contraddizioni di fondo e specifici ambiti territoriali e relative comunità la cui saldatura è in grado di innescare dinamiche antagonistiche noi-altri, piccole patrie-istituzioni centrali, prossimità solidali-estranei avversi (cfr. S. Staiano, “La frattura Nord-Sud. L’asimmetria territoriale come questione democratica”, «Il Politico», n. 2/2019, pp. 268 ss.). Proprio ciò che sta segnando sui versanti più diversi in Italia e in Europa questi ultimi anni, dalla crisi catalana ai temi della immigrazione.
Il primo problema allora da affrontare non è solo il regionalismo a cinquant’anni dalla sua realizzazione, che certo deve essere accuratamente analizzato e ripensato e attualizzato, ma che può contare su un grado di elaborazione sufficiente per impostarne il perimetro (centro compreso), gli strumenti (autonomia + decentramento amministrativo), gli obbiettivi (la differenziazione possibile), le risorse e relative responsabilità, le garanzie per le aree più fragili.
Il primo problema è l’ineludibile fase di riconoscimento dei valori ai quali il sentire del Paese può fare riferimento declinando ad oggi i principi sanciti nella Costituzione.
Compito immane, certo, ma che ormai abbiamo di fronte perché non c’è problema di prima grandezza, domestico o internazionale, economico o sociale, regionalismo e centro-periferia compresi, che possa prescinderne.
Chi, come, con quali forme, in che modo, con quali tempi è tutto da definire. Eppure negli stessi momenti più bui, accanto all’abbraccio soffocante di un passato che non vuole passare, si è percepito anche altro: voci di realtà diverse ma consapevoli della posta in gioco, di avere in comune molto di più di quanto si pensasse.
E forse, che rischiare per un futuro possibile restituisce all’oggi e alle difficoltà da cui è segnato un senso che è la più preziosa delle risorse.
In affanno invece, acquattato dietro esperti o prudenti silenzi, molto della politica e della cultura. Mentre non c’è nulla di quanto si è visto che non sia riconducibile alle funzioni più alte tanto della politica quanto della cultura: aiutarci a capire che cosa significa oggi essere una Repubblica democratica.
In definitiva, quindi, a leggere la prima riga del primo articolo della nostra Costituzione.