Sul referendum la destra si militarizza pur non essendo la sua guerra. Ma così vogliono Giorgia Meloni (la più grillino-populista della destra, ad onta di una storia politica di ordine e rispetto del Parlamento), Matteo Salvini (populista e basta), e Silvio Berlusconi (uno che d’istinto sposa le cause date vincenti). Per non parlare dei giornali e delle televisioni d’area, paladini da sempre dell’informazione populista.
L’ordine dunque è stato impartito e in casa sovranista la disciplina regna sovrana, qualche smagliatura liberale si nota in Forza Italia (Andrea Cangini, Simone Baldelli, Nazario Pagano) lambendo big come Renato Brunetta e Mara Carfagna, culturalmente lontani dalla sarabanda populista dei Cinquestelle ma politicamente restii a mettersi di traverso.
È noto che Guido Crosetto, spirito libero e liberale pur in un partito come Fratelli d’Italia che non ha esattamente queste caratteristiche, è da tempo avvelenato contro un referendum che – come disse qualche tempo fa in Transatlantico – «è l’ultima tappa della distruzione della democrazia»: parole inequivoche che non lasciano dubbi sul suo No.
Un No personale e non certo polemico nei confronti di “Giorgia”, la quale non vede l’ora di mettere il cappello sulla vittoria dei Sì, magari sommandola a una bella affermazione di Fratelli d’Italia alle regionali (occhio al suo Raffaele Fitto in Puglia).
Di certo, i dissidenti sono molti di più di quanto non sia evidente in pubblico. Ci dice Nazario Pagano, uno dei tre senatori (con Cangini e Nannicini) promotori del referendum: «Date retta a me, nel segreto dell’urna quasi tutti i parlamentari di Forza Italia e diversi leghisti voteranno contro questo attacco dei grillini alla politica».
Per arginare, insomma, quella che potrebbe essere una valanga, stante l’attuale pessima considerazione che i cittadini hanno dei “politici”: ma nessuno si schiererà pubblicamente per ordini superiori.
Il punto però sta in una contraddizione politica di fondo. Quella per cui la destra, di fatto, si sta accodando ad una iniziativa targata Cinquestelle e appoggiata (pur con tutti i malumori che sappiamo) dal Partito democratico e da Liberi e uguali, mentre Italia viva è più sfumata: in parole povere un’iniziativa nata e cresciuta nella pancia di quel governo a cui la destra si oppone.
È un copione che ha persino del ridicolo, quasi fosse un’ottocentesca commedia degli equivoci: con l’opposizione che vota Sì ad una riforma del governo, o comunque delle forze che lo compongono, creando l’inedito assoluto di un referendum che vede tutti i partiti (tranne forze minori) schierati dalla stessa parte.
Tanto che suona patetico il ricordo delle parole usate a fine gennaio da Salvini – «con la vittoria del Sì il Parlamento sarà delegittimato» -, era ancora fissato con l’idea della spallata che naturalmente la sera del 21 settembre, ultimo giorno dell’estate, non ci sarà affatto.
E viene invece da chiedersi chi otterrà il maggior dividendo da una probabilissima vittoria dei Sì. Con Di Maio (e Conte) che brinderanno al colpo di machete al Parlamento e la destra che farà altrettanto, in un affratellamento di un giorno sui calcinacci della rappresentatività democratica.