Il rischio di un secolo cineseL’Occidente è in crisi di identità, ma la pandemia può essere l’ultima chiamata

“The Wake Up Call”, i giornalisti John Micklethwait e Adrian Wooldridge scrivono che il virus ha portato alla luce tutti i problemi che da anni corrompono i Paesi occidentali, sempre più orientati verso un malinconico e doloroso declino. Ma questo non vuol dire che il futuro sarà nelle mani di Stati autoritari e dittature

JOHANNES EISELE / AFP

Ci sono decenni in cui non succede nulla, e settimane in cui accadono decenni. Lo diceva Lenin, lo riprendono John Micklethwait e Adrian Wooldridge, il primo direttore di Bloomberg ed ex direttore dell’Economista, il secondo veterano dell’Economist, che nel giro di poche settimane hanno scritto “The Wake Up Call. Why the pandemic has exposed the weakness of the West. And how to fix it”, edito da Octopus Publishing Group.

Poco più di 100 pagine, dense di informazioni, in cui si fa il punto della situazione. Il Covid è arrivato, ha travolto l’Occidente e ha messo in mostra tutti i suoi punti deboli. Nel frattempo ha dato una mano a Cina e alle ex tigri asiatiche: numeri alla mano, hanno retto meglio. E si candidano a guidare il mondo del futuro. «Doveva essere la Cernobyl della Cina, è diventato la Waterloo dell’Europa», scrivono.

Ma perché è andata così? E soprattutto: è un destino inesorabile?

La risposta alla seconda domanda è, per fortuna, no. Secondo i due giornalisti, che utilizzano un approccio storico di ampio respiro, la disfatta subita da diversi governi occidentali – anche da chi ha fatto bene, come la Germania – non è senza appello.

È, piuttosto, «un segnale d’allarme», cioè la “wake up call” del titolo. Nella storia, ricordano, l’Occidente non è sempre stato il campione del progresso. Ai tempi di Thomas Hobbes, il filosofo autore del “Leviatano” e tra i primi a teorizzare una forma di Stato retta da un contratto anziché da una investitura divina ereditaria, l’Europa era una selva di staterelli e potentati in continua guerra tra di loro. Arretrati, poveri, soggetti a pestilenze e carestie.

Di converso, la Cina era senza dubbio la realtà statuale più avanzata, sia da un punto di vista tecnologico che politico. E non solo: se Thomas Cromwell (antenato del più famoso Oliver) faticava a tenere insieme un’Inghilterra di poco più di due milioni di abitanti, il Sultano ottomano ne governava 10 da Istanbul.

Poi le cose sono cambiate. Con una lunga cavalcata storica, viene raccontato il doloroso cammino occidentale verso la modernità. Prima con la formazione degli Stati nazione (che mai raggiungeranno i pieni poteri dell’Imperatore cinese), poi con la crescita dello stato liberale, che si impone spinto dal capitalismo nascente. Infine, lo stato sociale, con le misure di welfare che hanno portato a quello che – a loro avviso – è stato l’apice dello sviluppo: gli anni ’60 del Novecento.

In quel momento storico l’Occidente aveva di gran lunga surclassato ogni primato di Cina e Turchia, realtà che nel frattempo erano implose sotto i colpi della loro immobilità. Con una classe dirigente atrofizzata, contagiati dalla paura di imparare – e di mettersi in gioco – avevano subito con gli anni le conquiste, militari e culturali, delle nazioni europee.

Gli anni ’60 vengono scelti anche perché rappresentano «l’ultimo momento storico in cui i cittadini occidentali hanno creduto nei loro governi». Può essere vero: anche perché, da quel momento, tutti i limiti della macchina statale, proprio quelli che negli anni ’80 sia Ronald Reagan che Margaret Thatcher cercheranno di combattere (ma senza riuscire a invertire la rotta), cominciano a emergere in modo inquietante.

Sono i sette vizi dello Stato occidentale contemporaneo, considerato ormai «sovraccarico». Il primo è l’età: segue logiche ormai superate, spende più in sussidi all’agricoltura che in tecnologia, non «impara nulla, cosa che nel settore privato è vitale». Risultato, è bloccato. E anche l’Unione Europea si prende qualche critica: anziché spingere i Paesi membri a «imparare ognuno dall’altro, si preoccupa di elaborare regolamentazioni per tutti».

Il secondo vizio è la sua estensione: «Nel corso degli anni lo Stato non ha demandato alcuna responsabilità. Anzi, ne ha accumulate di nuove», da quelle essenziali «istruzioni e pensioni» a quelle inutili, («regole su come fare i bigodini e l’arredamento di interni»). È un dramma, che va a caricare una macchina già inefficiente nei suoi compiti primari.

Questo conduce al terzo vizio, l’opacità: la selva di regole e regolamenti favorisce chi riesce, con favori e aiuti, a navigare tra le norme e i codicilli, o a infischiarsene. Alla fine non si riesce a trovare nessuno davvero responsabile di qualcosa. E poi al fatto che è uno stato «prigioniero» (quarto vizio) di lobby e gruppi di interesse (quali i sindacati, soprattutto) che fanno pressioni e bloccano sviluppo e modernizzazione – o cercano di piegarla per le proprie necessità.

Ci si può fidare di uno stato così? Certo che no: e pensare che all’elenco mancano ancora tre vizi capitali: è uno stato sbilanciato sugli anziani (è la questione, annosa in ogni senso, delle pensioni e della prevenzione sociale), che non è capace di coltivare e premiare il talento (chiunque abbia un minimo di capacità andrà a cercare fortuna e gloria altrove, cioè nel privato) e che, soprattutto, non sa trovare leader validi.

È questo il problema del populismo, che ha travolto l’Europa e gli Stati Uniti e che, se anche non può essere incolpato di tutte i disastri nella gestione della pandemia, di sicuro non ha offerto nessuna soluzione.

I mesi del Covid, raccontati dettaglio nel dettaglio, sono stati una delle esperienze peggiori cui i Paesi occidentali, del tutto impreparati, si sono trovati ad andare incontro. Al contrario, Paesi come Singapore – impostati da decenni su un mix di idee rubate da Stati Uniti ed Europa, come la meritocrazia, il rispetto della cosa pubblica, il valore della competizione e delle tecnologie, ne sono usciti vincenti. Merito delle passate epidemie (la SARS), senza dubbio. Ma anche di un sistema in cui i cittadini hanno fiducia. Anche a costo di aver perso molte libertà.

È questo, si chiedono, il destino dei Paesi occidentali? È l’autoritarismo la via d’uscita per i prossimi anni? La risposta, anche qui, è no. Perché se è vero che nelle situazioni di emergenza gli stati autocratici e dittatoriali funzionano meglio (rapidità di azione, velocità nelle decisioni), non si può dire lo stesso per quanto riguarda i tempi di normalità. E poi, se Cina, Vietnam e Singapore hanno reagito bene al test del Covid, lo stesso non si può dire della Russia (che non è proprio una democrazia).

Insomma, l’assunto non funziona e va respinto. Piuttosto, quello che resta da fare, è prendere in mano l’elefantiaca macchina statale democratica, salvare diritti e inclusività, e per il resto sfoltire, svecchiare, ripristinare merito ed entusiasmo.

Sono cose che, nel libro, vengono svolte da un Lincoln redivivo, figura a metà tra la narrazione e la retorica, che semplifica, ammoderna, rinvigorisce. La formula non è semplice «e richiede importanti riflessioni, anche filosofiche».

Ma per cominciare basterà copiare da quello che c’è già: le best practice del settore privato, per esempio, e anche quelle del mondo orientale.

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