Sul Colle del Piccolo Moncenisio, qui dove un orizzonte è Francia e l’altro è Italia, la famiglia Giovale nutre i suoi animali da quasi 400 anni. Quelli in cui i Giovale di oggi, come quelli di ieri, hanno mantenuto in vita un’arte senza precedenti nel realizzare formaggi di mucca, di pecora e di capra.
Nel percorrere con la macchina il tragitto che porta al Colle del Piccolo Moncenisio, a 2184 metri sul livello del mare, si finisce con la testa a precipizio prima nelle acque blu del lago artificiale del Moncenisio, poi in su verso le cime che lo circondano, la Punta Roncia, il Monte Mamelot, la Punta Lamet, il Monte Giusalet. L’altezza è tanta che da queste parti può nevicare ad Agosto e il giorno dopo fare un sole tanto forte da spaccare le pietre. È un paesaggio unico, dal sapore onirico, dove sbucano corsi d’acqua e piccoli fiordi.
L’alpeggio Listelo si trova non troppo lontano dal rifugio del Moncenisio e si presenta come un tetris di edifici dallo stile spartano che ospitano gli animali della famiglia e i loro conduttori. Mucche e manze soprattutto (un po’ più giù a valle si trovano invece pecore e capre), 250 circa, che ogni giorno, da Giugno ad Ottobre, pascolano in campo aperto e si nutrono dei prati di quest’area. L’austerità di queste montagne e dei loro climi, nonché la posizione di confine, ne hanno preservata intatta la biodiversità negli anni.
Così appena è possibile, quando le nevi arretrano e lasciano spazio al passaggio degli animali, le mucche vengono portate dalla Val di Susa, dove i Giovale hanno il loro caseificio, fino al Colle. Qui rimarranno al pascolo fino a Settembre, Ottobre alle lunghe, nutrendosi di quello che questi prati, ricchi di marmotte, mirtilli, timo serpillo e artemisia glacialis sanno offrire. A raccontarlo sembra semplice, ovvio. Ma il formaggio che finisce sulle nostre tavole, questi paesaggi non li ha visti neanche in sogno.
Ogni giorno in questi mesi, si ripete il rituale del pastore che porta gli animali al pascolo circondato da una muta di cani, incalzando le mucche e chiamandole scherzosamente per nome. Quelle di contro torneranno nelle loro stalle per le 17, puntuali come un orologio, prendendo posto per la notte. I Giovale evidenziano spesso il tratto sensibile di questi animali che, oltre a una grande longevità, scelgono dai prati solo quello che apprezzano di più, e di anno in anno ricordano il luogo del loro alpeggio estivo, ritornando quasi da sole verso la meta.
Ogni giorno gli animali vengono munti e offrono latte per il burro d’alpeggio e per i formaggi a latte crudo che vengono realizzati nel piccolo caseificio d’altura. Qui si possono vedere i casari lavorare il burro con le mani, passarlo in tinozze d’acqua, spingerlo negli stampi di legno e farlo raffreddare in un grande recipiente d’acqua ghiacciata. Sono prodotti senza paragoni, che risentono in modo inequivocabile dell’alimentazione degli animali, al punto che le prime erbe, quelle di Giugno, conferiscono un sapore ancora più forte agli assaggi, che va via smorzandosi mentre si degrada verso la fine dell’estate.
Da questo lavoro fatto secondo natura, nascono formaggi molto riconoscibili, fuori da ogni standard ma levigati da un’artigianalità trasmessa dai nonni ai figli, e poi ai nipoti. C’è il Primosale, la Ricotta, la Mansueta, il Sangonetto, le Tome Rigate e quelle a latte acido (Murianengo). E poi ci sono anche La Giallina, il Barà che prende il nome dalla razza delle mucche, la Barà Pustertaler, il Sangonetto di pecora a crosta lavata e i Caprini a crosta fiorita. Ci sono tanti altri formaggi che finiscono sui banchi del caseificio di Giaveno, di “Beppe e i suoi formaggi” e del “Mercato Centrale a Roma”, nei mercati di Torino e in Francia.
Ci sono anche quelli affinati con le erbe del pascolo oppure con l’elicriso, la foglia di noce, la lavanda, il pepe, la bacca di ginepro e le bucce di Nebbiolo. La storia che questi formaggi raccontano parla di una famiglia e di un mestiere che si fa risalire fino al 1621. Tuttavia è con Eligio Giovale nel 1891 che comincia una produzione per la vendita. Negli anni sono in tanti a dedicarsi a questo lavoro. Più vicino a noi la nonna Nella, poi i suoi figli Dario, Maria Teresa, Alessandro, Giuseppe, per tutti Beppe, insieme ai figli e nipoti, Alain e Chantal, e una generazione di giovanissimi pronta a portare avanti l’arte di famiglia.
Ad Alain, poco più che trentenne, il compito di tradurre nei formaggi di oggi la tradizione dei Giovale, rubata con gli occhi dalla nonna e dallo zio Beppe, quest’ultimo vero ambasciatore del mestiere e del prodotto tra Francia e Italia.
Un quadro composito dove si intrecciano in modo indissolubile le storie degli uomini, la vita degli animali, la natura stessa dei pascoli e delle montagne. Eredi di un mestiere che oggi si compie troppo spesso senza rispetto, tra scorciatoie e livellamenti verso il basso, i Giovale sono eroi e difensori del territorio. Vale una visita, oltre che un assaggio.