La battaglia per la leadershipChiuse le urne, si è aperta la stagione della caccia ai populisti Salvini e Di Maio

I leader di Lega e Cinquestelle perdono terreno e, referendum a parte, sono superati dai rivali interni. I grillini scontano una strategia assenteista sui territori, mentre il “Capitano” vede i suoi slogan perdere forza e impeto, e ora è in discussione anche il suo ruolo nella coalizione di centrodestra

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Il tempo non è più dalla loro parte, a quanto pare. E sono giorni duri per sovranisti, antieuropeisti e sfasciacarrozze. Si è aperta subito infatti la doppia caccia a Matteo Salvini e a Luigi Di Maio, i dioscuri del populismo italiano a disagio nel tempo del Covid e per questa dissonanza puniti dagli elettori.

La destra comincia a interrogarsi se la leadership di un Salvini che perde sempre sia ancora attuale; mentre Roberto Fico e Alessandro Di Battista mordono i polpacci di un Di Maio che sta crollando forse sotto il 10 per cento.

Già, il voto ha squadernato la realtà: il Movimento cinque stelle non ha nulla e nessuno sul territorio. Zero idee nuove, e quel po’ di antipolitica su cui ha prosperato ormai è merce che si trova ovunque e costa meno, come alla bottega del Nazareno. Non ha più una funzione specifica.

Al massimo può sperare di essere una stampella di Zingaretti: non proprio una prospettiva eroica. Stefano Patuanelli, il più presentabile, è già in quest’ottica. Lui, Di Maio, non si capisce cosa voglia fare, oltre a mantenere l’auto blu e giocarsela al Congresso, come nella Prima Repubblica (ma all’epoca erano cose serie).

I gemelli gialloverdi per certi aspetti vivono la medesima crisi. Perché siamo planati su una spiaggia dove si cercano rassicurazioni, garanzie, equilibrio. È l’effetto Covid che premia la forza tranquilla e senza sogni di Nicola Zingaretti, o il profilo avvocatesco e da “uno di noi” di Giuseppe Conte.

E dunque non sembra che questo spirito del tempo si attagli ad un “cattivo” in cerca di avventure come Salvini e a dei dilettanti come i grillini. Il primo di certo si aspettava il contrario – e non era in verità il solo: la rivolta sociale delle partite Iva, la protesta diffusa contro Roma, un po’ Masaniello un po’ Maduro, camicie bagnate di sudore nei mille comizi, molta Bestia sui social, candidate improbabili ma soi-disant “nuove”: niente da fare.

I numeri sono impietosi. Ecco il raffronto fra le Europee dell’anno scorso e le Regionali di ieri: in Liguria la Lega passa dal 40 al 17, in Campania dal 19,2 al 5,6, nelle Marche dal 38 al 22,4, in Puglia dal 25,3 al 9,6, in Toscana dal 31,5 al 21,8 e in Veneto dal 49,9 al 16,9 (surclassata dalla lista Zaia).

Il Movimento cinque stelle crolla ovunque a percentuali a una cifra. Perdente per definizione. Alleanze sì, alleanze no: non ci si è capito niente. Gli elettori alla fine hanno giustamente fatto come gli pareva.

Ora Fico e Dibba, il nuovo asse, gettano la sfida al ministro degli Esteri: ma per fare che? Non lo sanno nemmeno loro probabilmente.

Da parte sua il “Capitano” è parso piuttosto un soldato nel fango delle retrovie da lui stesso accumulato nel corso degli anni ruggenti del sovranismo e della xenofobia: cartucce che adesso sparano a salve e non fanno paura a nessuno.

La legittima difesa, la castrazione chimica, l’uscita dall’euro, il negazionismo, fino ai sequestri di esseri umani al largo dei porti siciliani: sembra un secolo fa. Roba che sa di muffa. Fuori dal contesto storico: il tutto out of the blue, improvvisamente le priorità del Paese sono risultate altre come la sanità, il lavoro, tutte cose che lui non padroneggia.

Ma come può sposarsi il selvatico arrembare del “Capitano” con le nuove emergenze che richiedono invece innovazione, solidarietà, inclusione?

Ecco perché nel centrodestra è partita la caccia. “Sediamoci intorno a un tavolo e vediamo che profilo deve darsi il centrodestra”, dice in tv un pimpante Giovanni Toti. Che rimpiange il Cavaliere “che sapeva mediare fra le diverse anime”. Non come questo qui, è il sottotesto implicito.

La questione viene posta, in toni garbati o a mezza voce, anche negli ambienti di Fratelli d’Italia: «Al momento la Lega ha più voti di noi – dice Giovanni Donzelli, uno dei rampanti del partito di Giorgia Meloni – e quindi ha il diritto di esprimere il leader. Ma se i rapporti di forza dovessero cambiare…».

Sembra una discorso ovvio ma è invece l’apertura di una competizione per la leadership: il tema è posto, Salvini è in discussione.

Che tocchi a Giorgia Meloni la guida della destra sembra possibile stando ai risultati elettorali, ma arduo da quello della logica politica: se siamo entrati in una inedita stagione della moderazione – e non perché stiamo bene ma per il motivo opposto – allora è difficile pensare che una personalità istintivamente estremista come la leader di Fratelli d’Italia possa ambire alla guida della sua coalizione quindi in prospettiva del governo.

Fuori dai giochi Berlusconi: la destra italiana forse cerca un personaggio in cerca d’autore come Luca Zaia, o qualcuno che ancora non si è affacciato alla ribalta della politica. Di tempo per trovarlo ce n’è.

Per Matteo Salvini invece forse il tempo è scaduto. E per il suo gemello populista Luigi Di Maio sembra pronta una ghigliottina politica, per tanto tempo simbolo di quel populismo a cinque stelle che incantava l’Italia e che ora pare vecchio come un maglione slabbrato trovato in soffitta.

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