Se qualcuno sostiene di avere capito “I’m Thinking of Ending Things”, l’ultimo film di Charlie Kaufman (disponibile su Netflix) senza avere letto il libro da cui è tratto, scritto da Iain Reid, non va creduto. È senza dubbio un impostore.
E, visti i continui rovesciamenti della trama – che arriva, in modo inesorabile a disfarsi in un viaggio sotto una tempesta di neve – si può dire che non sia l’unico. A fargli compagnia ci sarebbe proprio Kaufman, che gioca con lo spettatore: nasconde dettagli della trama fondamentali (nel libro ci sono, invece) lo stupisce, lo incuriosisce, lo bersaglia di riflessioni filosofiche e citazioni colte e in più lo confonde.
Kaufman del resto ha sceneggiato “Essere John Malkovich”, film pluripremiato del 1999 basato sull’idea di poter entrare, a pagamento, nella testa dell’attore John Malkovich (interpretato da John Malkovich) e vivere 15 minuti da star. “I’m Thinking of Ending Things”, dove invece passa alla regia, ne è un lontano cugino. Ma la parentela c’è.
Per capirlo – se si riesce – si deve arrivare alla fine di un’opera che, nel prospetto di Netflix, è definita “intellettuale” e “cupa”. Ma è una sintesi ingiusta. Il film è molto di più.
Comincia come la storia di una coppia che, in auto, attraversa una tempesta di neve per raggiungere la casa dei genitori di lui. Una coppia male assortita, sembra di capire: la voce della donna, interpretata da una splendida Jessie Buckley, è fuoricampo. Pensa ad altro (cose cupe, appunto) e non lo confida al compagno, interpretato da Jesse Plemons – già la sua figura, minacciosa e impenetrabile, contribuisce a creare metà della tensione.
Il refrain ricorrente della voce fuoricampo, cioè «I’m thinking of ending things» (meglio in inglese, per la sua ambiguità), fa partire le sue riflessioni desolate: il compagno la interrompe con small talk di circostanza, o chiacchiere impacciate. Non sembrano fidanzati, anche se da poco. Sembra anzi che nessuno dei due davvero sappia come si comportano i fidanzati.
Le stranezze crescono, a partire dalla poesia (si scopre che la ragazza è poetessa, e anche altro) “Bonedog”, che nel film è attribuita alla protagonista e nella realtà è stata composta dalla canadese Eva H. D. «Sembra che tu l’abbia scritta per me», dice lui. È poesia, risponde lei: «C’è dell’universale nello specifico».
Nell’automobile c’è tempo per parlare del musical Oklahoma!, del film di John Cassavetes “Una moglie”, del 1974, con tanto di analisi (presa di peso dalla critica di Pauline Kael) del personaggio di Mabel, la protagonista, interpretata da Gena Rowlands.
Nei silenzi e negli scambi faticosi qualcosa non va, lo spettatore lo sente, ma l’impalcatura precipiterà più avanti, all’improvviso, quando saranno nella casa dei suoi. Lei ha appena raccontato il loro primo incontro, il momento in cui lui, vincendo i suoi imbarazzi, era riuscito a chiederle il numero. Una delle tante
Dopodiché sarà una confusione indistinta, un susseguirsi di immagine spiazzanti, di indizi sempre poco comprensibili, di indicazioni ambigue. Dove sta andando il film?
In tutto questo, la trama parallela del bidello che va a pulire solitario i pavimenti di una scuola comincia a mostrare legami con quella della coppia. Cosa succede?
Dire di più non si può. Basterà ricordare che, usciti dalla casa dei genitori, i due tornano in macchina, alle chiacchiere stentate, si cita David Foster Wallace – forse la chiave definitiva di quanto sta accadendo: del resto anche “Infinite Jest” si concludeva con una bufera di neve – e si parla del suo suicidio.
Da qui, l’ultimo passaggio: ambientato alla scuola superiore di lui, dove lo scioglimento – disperato e danzante – dei misteri accumulati avverrà con un balzo poetico. “I’m Thinking of Ending Things” è bello e insincero. Racconta tante verità, ma con l’artificio di un’impostura. Fa trovare spaesati come con un trucco: lo stesso, o molto simile a quello che, senza spiegazione, faceva piombare la gente nella testa di un’altra persona.