Luigi Di Maio, indaffarato in altre cose, non se ne è sicuramente accorto, e sarebbe quindi il caso che qualcuno lo avvisasse che l’Italia, come tutta l’Europa, non ha più uno straccio di linea strategica sul Medio Oriente.
Problema non da poco. È successo infatti che lo storico accordo – termine questa volta appropriato e non retorico – firmato alla Casa Bianca tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein ha sconfessato tutti i presupposti e i punti fermi dell’Unione europea e dell’Italia sul quadrante mediorientale.
Sin dal vertice europeo di Venezia del 1980, il baricentro di tutta la politica mediorientale è stato la costituzione di uno Stato Palestinese, con leadership Olp, chiudendo la fase nella quale gli interessi dei palestinesi erano rappresentati da Egitto e Giordania.
L’Amministrazione Trump ribaltato questo assunto con un coraggio strategico notevole: la trattativa per lo Stato palestinese è rimandata a un domani indeterminato, la leadership dell’Olp è emarginata, quasi fosse un inutile comprimario.
Oggi, qui e subito, cessa il secolare “rifiuto arabo di Israele” che si trasforma nel suo opposto: un riconoscimento pieno – oggi di due, domani di altri Stati arabi – della legittimità dello Stato ebraico, una alleanza militare in funzione anti iraniana e intensissimi rapporti economici e turistici che danno alle monarchie petrolifere un futuro anche in vista del graduale esaurimento del loro sfruttamento dell’oro nero. Il tutto sotto la regia e la piena approvazione dell’Arabia Saudita.
Quanto ai palestinesi e al loro massimalismo, che si arrangino, prigionieri della loro vuota e impotente retorica. Non sono più considerati che degli orpelli del passato.
Starà agli storici decidere in futuro se il merito di questa clamorosa e positiva svolta sia personale di Trump o della solidità tradizionale degli stakeholder che animano tutte le Amministrazioni Usa.
Indubbiamente la dottrina che sottintende questo percorso è quella solita enunciata durante la prima amministrazione di G. W. Bush da Condoleeza Rice: la costituzione di una solida “trincea sunnita” che isoli, contrasti e lentamente soffochi l’espansionismo oltranzista dell’Iran. Riedizione aggiornata della strategia del Containement (alla quale la Rice partecipò personalmente) con la quale Ronald Reagan aveva ottenuto il collasso dell’Unione sovietica.
“Trincea sunnita” della quale oggi non fanno più parte la Turchia di Erdogan e il Qatar che anzi da questa logica sono fiaccati per i loro sostegno ai Fratelli musulmani. Di fatto, Trump, con indubbio coraggio e innovazione, ha ribaltato quaranta anni di strategie mediorientali che ebbero inizio, come si è detto, con la decisione dell’Europa al vertice Cee di Venezia del 1980 di imporre ex abrupto Yasser Arafat come interlocutore centrale in Medio Oriente, sostenendo la assoluta necessità della nascita di uno Stato palestinese (che peraltro mai era esistito nella più che millenaria storia arabo ottomana).
Fu una decisione pavida e opportunista, sostenuta da motivazioni energetiche e petrolifere a seguito della crisi del 1973 e della allora recente vittoria di Khomeini in Iran.
Sino a quella svolta europea, Arafat era considerato dalla diplomazia americana, esattamente come da quella israeliana, per quello che effettivamente era: il leader di una organizzazione che non solo praticava unicamente una via terrorista, che rifiutava l’esistenza dello Stato di Israele, ma che anche tentava golpe interni in tutti gli Stati arabi che la ospitavano, dalla Giordania, al Libano, allo stesso Iran (e anni dopo in Kuwait).
Da Venezia in poi, con danni immensi, non solo per Israele, Arafat, divenne un personaggio centrale in Medio Oriente. Solo oggi si misura quanto sia stata misera, perdente e devastante la sua eredità.
La strategia degli Stati Uniti e dell’Europa, sino ad allora era stata quella di un possibile accordo sulla Palestina tra Israele, l’Egitto e la Giordania, che peraltro era allora pienamente titolare della sovranità formale sulla Cisgiordania occupata da Israele nel 1967.
Si era infatti appena siglata nel 1979 la pace piena tra Gerusalemme e Il Cairo con lo storico accordo Begin-Sadat che ipotizzava la crescita di una leadership palestinese dal basso, alternativa e antagonista alla Olp, attraverso il riconoscimento israeliano di strutture amministrative autonome palestinesi, regolarmente elette, nei Territori occupati.
Ma la “dichiarazione di Venezia”, ribaltava tutto: l’Europa non riconosceva più a Egitto e Giordania la rappresentanza degli interessi dei palestinesi e la affidava in pieno al terrorista Arafat.
Indicativa la reazione di Menahem Begin, appena insignito del Nobel per la Pace: «La Olp è l’erede delle Ss arabe organizzate con Hitler dal Gran Muftì. Ogni individuo libero e onesto in Europa, esaminando questo documento vi riconoscerebbe una concessione in stile Monaco a un potere tirannico, la seconda nella nostra generazione, nonché un incoraggiamento a tutti coloro che aspirano a sconfiggere il processo di pace in Medio Oriente».
Parole e concetti che possono oggi stupire, ma che furono profetiche: dopo la svolta di Venezia, la Olp di Arafat ha utilizzato il credito inaspettato fornitogli dagli europei disseminando il Medio Oriente e non solo Israele di una interminabile scia di sangue e di fallimenti: incurante del sanguinoso epilogo del suo tentativo di impadronirsi del controllo della Giordania durante il Settembre Nero del 1970, Arafat tentò di prendere il controllo del Libano nel 1981 (di nuovo un disastro sanguinoso).
Poi favorì una ribellione araba nel Khouzestan iraniano che fu la scintilla per la deflagrazione della spaventosa guerra Iran-Iraq nella quale si schierò con Saddam Hussein (altra sconfitta); poi appoggiò l’annessione nel 1991, sempre da parte di Saddam Hussein, del Kuwait all’Iraq che fece deflagrare la prima guerra del Golfo; poi, pur costretto dai suoi fallimenti a siglare gli ambigui accordi di Oslo del 1993, rifiutò la restituzione del 95% dei Territori occupati nel 2000 offertagli da Clinton e Ehud Barak (rifiuto indicativo della sua linea suicidale per gli interessi palestinesi).
Infine tra il 2000 e il 2005 scatenò contro Israele la Intifada delle Stragi che segnò, come disse Abu Mazen che la contrastò, il disastro definitivo delle aspirazioni palestinesi.
Oggi, Trump incurante delle debolezze dell’Europa, chiude 40 anni di strategie fallimentari con un vigore tale da condizionare gli Usa anche se Joe Biden vincesse le presidenziali. La concreta realtà di rapporti politico, economici e militari tra Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e domani Sudan, Oman e altre monarchie del Golfo, sotto la regia di una Arabia Saudita vero baricentro di questo nuovo assetto, condizionerà tutta la politica americana in Medio Oriente chiunque sia alla Casa Bianca, soprattutto perché rafforzata da consistenti forniture di modernissime tecnologie aeree e militari.
Dal caos del presidente statunitense è dunque sortito un assetto radicalmente nuovo e più razionale del Medio Oriente nel quale – aspetto fondamentale – l’odio della “piazza araba” per Israele e gli ebrei è stato sostituito dalla piena collaborazione e intesa. Una svolta epocale.