A ottobre del 2018 gli Stati Uniti hanno annunciato la fine del Trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), l’accordo siglato nel dicembre del 1987 dal presidente americano Ronald Reagan e dall’omologo sovietico Michail Gorbačëv. L’intesa era stata raggiunta in piena Guerra fredda per risolvere i problemi derivanti dallo schieramento di missili a raggio intermedio sul territorio europeo da parte di Unione sovietica e Stati Uniti e per garantire la sicurezza non solo dell’Europa, ma del mondo intero.
L’uscita di Washington dal trattato ha però sconvolto gli equilibri nucleari raggiunti durante la Guerra fredda tra le due maggiori potenze mondiali, riaprendo il dibattito su questioni che sembravano ormai relegate al passato quali deterrenza e corsa al riarmo.
Ma, a differenza del secondo Dopoguerra, non ci troviamo più di fronte a un sistema bipolare, per cui gli attori che possono decidere delle sorti del mondo sono solo Stati Uniti e Russia. A essi si è aggiunta di recente anche la Cina che ha aumentato la propria influenza tramite il settore economico-culturale e sta avanzando sempre di più anche in quello militare. Con grande preoccupazione degli Stati Uniti e degli attori regionali.
La Cina
A settembre il dipartimento della Difesa americano ha pubblicato l’annuale dossier “Military and security developments involving the People’s republic of China” sullo stato delle forze armate cinesi. Secondo il documento, Pechino sta continuando a investire nel settore militare e punta non solo a raggiungere gli standard americani, ma anche a superarli.
La Cina, come affermato dallo stesso presidente Xi Jinping pochi anni fa, sta lavorando per diventare entro il 2049 una potenza militare globale e i numeri del report confermano questa intenzione. A destare particolare preoccupazione a Washington è il settore nucleare: la Cina ha a disposizione 200 testate, ma secondo il report americano punta a raddoppiare il suo arsenale entro i prossimi dieci anni.
Oltre alle ogive, Pechino sta investendo anche sulla cosiddetta triade (ossia missili con base a terra, lanciabili tramite sottomarini o aerei), per riuscire così a eguagliare le capacità militari di Russia e Stati Uniti. Nello specifico, la Cina possiede già 1.250 missili balistici e da crociera per lancio da terra con una gittata media o intermedia (quindi tra 500 e 5.500 chilometri), nonché missili balistici intercontinentali con testate indipendenti, convenzionali o nucleari che potrebbero raggiungere anche Europa e Stati Uniti in circa 30 minuti.
La Cina, come detto, mira a superare le capacità militari degli Stati Uniti ed è già riuscita a mettere in piedi la Marina più grande del mondo: Pechino dispone di 350 navi e sottomarini da guerra, mentre gli Usa sono fermi a 293. Inoltre, nei prossimi anni la Cina riuscirà a dotarsi anche di portaerei costruite interamente nel Paese asiatico.
A differenza di Washington, però, Pechino non può ancora contare su basi militari al di fuori del proprio territorio (al di là di quella di Gibuti, in Africa orientale) il che riduce il suo potenziale militare. Nonostante ciò, l’attivismo di Pechino ha allarmato gli Stati Uniti a tal punto da far stracciare il Trattato Inf nel tentativo di recuperare il gap venutosi a creare negli ultimi anni e la rivalità con la Cina ha ormai superato la storica opposizione alla Russia.
La fine del Trattato Inf e il rinnovo del New Start
Ufficialmente, a determinare l’uscita degli Stati Uniti dall’Inf sarebbero state una serie di violazioni compiute dalla Russia. Secondo Washington, Mosca avrebbe dispiegato dei missili di gittata intermedia e con capacità nucleare sul territorio russo, andando quindi contro il Trattato e minacciando la sicurezza degli alleati americani. Anche la Russia in realtà ha denunciato la violazione da parte Usa dell’Inf e ventilato l’idea di stracciare il Trattato, ma alla fine a prendere questa decisione sono stati gli Stati Uniti.
Tuttavia, la vera motivazione dietro la mossa americana è un’altra e non ha direttamente a che vedere con la Russia. A preoccupare Washington infatti è la capacità militare cinese, cresciuta nel tempo proprio grazie all’assenza di quei vincoli che invece Usa e Russia si sono impegnati a rispettare ai tempi della Guerra fredda, quando Pechino non rappresentava ancora una minaccia all’ordine mondiale.
La Cina, come detto, ha potuto dotarsi di missili a raggio medio e intermedio (e non solo), vietati dal Trattato Inf, mettendo così in pericolo non solo gli alleati americani ma le stesse portaerei statunitensi nel Pacifico. Proprio quest’area è diventata negli ultimi anni teatro di scontro tra Stati Uniti e Pechino, e la tensione è destinata ad aumentare.
Obiettivo di Washington, quindi, è riscrivere i trattati esistenti per includere anche la Cina e limitarne così la potenza militare (e nucleare). Il problema però è che Pechino non ha alcuna intenzione di siglare un trattato simile all’Inf, perché ciò vorrebbe dire distruggere quasi interamente il suo arsenale e perdere così il vantaggio conquistato dopo anni di investimenti.
Intanto, grazie all’uscita dall’Inf, gli Usa hanno ripreso i test sui missili precedentemente vietati dal Trattato e che possono essere effettuati nel rispetto – per così dire – di un altro importante accordo sul nucleare: il New Start.
Il Trattato è stato siglato da Barack Obama e dal suo omologo russo Dimitri Medvedev nel 2011 per limitare il numero di testate nucleari presenti nell’arsenale dei rispettivi Paesi, nonché i missili balistici intercontinentali (Icbm) o lanciabili da sottomarini (Slbm) in grado di trasportarle. Nello specifico, Russia e Stati Uniti possono avere massimo 1550 testate ciascuno, 700 tra missili e bombardieri dispiegati e 800 sistemi di lancio non dispiegati.
Il New Start però non pone limitazioni ai missili a gittata media e intermedia, dato che la questione era già stata regolata dall’Inf, quindi al momento ci troviamo di fronte a una sorta di vuoto legislativo e alla necessità di creare un New Start II più aggiornato.
Le trattative in questo senso sono partite già da tempo, anche perché l’accordo scade ufficialmente a febbraio del 2021, ma gli Stati Uniti premono ancora una volta per una sua modifica e per l’inclusione della Cina, ben poco propensa ad accettare qualsivoglia limitazione al suo arsenale.
Le conseguenze per l’Unione europea
La fine dell’Inf ha interessato non solo Stati Uniti e Russia, ma anche l’Unione europea. Il Trattato era stato siglato proprio per porre fine alla cosiddetta crisi degli euromissili (i missili schierati dalle due potenze in territorio europeo) e la rinnovata possibilità di sviluppare e dispiegare nuovamente tali sistemi anche in Europa ha delle implicazioni importanti. La Russia ha infatti prontamente minacciato ritorsioni nel caso in cui gli Stati Uniti decidano di usare le basi Nato presenti nell’Est Europa e che rappresenterebbero una minaccia diretta al territorio della Federazione.
Al momento, nel Vecchio continente ci sono tra le 100 e le 150 testate nucleari americane, dispiegate nelle basi di Belgio, Olanda, Germania, Turchia e Italia. I Paesi dell’Est Europa presenti nella Nato hanno inoltre rafforzato i legami militari con gli Usa a causa della percepita minaccia russa, aumentata a seguito dell’annessione della Crimea alla Russia nel 2014, e acconsentito alla creazione di basi semi-permanenti.
Ma quanto è probabile un ritorno agli euromissili? Meno di quello che si potrebbe pensare. Tale prospettiva era già stata esclusa un anno fa dal Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e se davvero il nemico numero uno degli Stai Uniti adesso è la Cina e non la Russia, l’interesse americano dovrebbe dirigersi più verso Oriente che non verso il Vecchio continente.
E gli altri Paesi?
Russia e Stati Uniti detengono il più grande arsenale nucleare del mondo con 6.375 e 5.800 ogive a testa, ma non sono gli unici Paesi ad avere accesso a queste armi. Come riportato dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) gli Stati nucleari sono in tutto nove: Russia, Usa, Gran Bretagna (215), Francia (290), Cina (200), India (150), Pakistan (160), Israele (90) e Corea del Nord (30-40).
Al mondo ci sono quindi circa 13.400 testate nucleari, di cui 3720 dispiegate e 1800 pronte ad essere attivate in caso di massima allerta. Come spiegano dal Sipri, si tratta di un numero complessivo inferiore rispetto a quello del 2019, grazie allo smantellamento di alcune armi nucleari di Russia e Usa sulla base del New Start.
Questi ultimi due Paesi continuano ad essere i leader nel settore nucleare, ma Cina, India, Pakistan e Corea del Nord stanno aumentando gli investimenti in questo ambito, puntando a una diversificazione e all’ammodernamento dei propri arsenali.
Stabilire le reali capacità nucleari di questi tre Stati continua ad essere complicato a causa della mancanza di informazioni, così come non si hanno dati certi sulla potenza israeliana. Tel Aviv continua infatti a non esprimersi sulle capacità nucleari del Paese, anche se da anni viene dato per scontato il possesso da parte di Israele di circa 90 ogive.
A preoccupare però non è solo la Cina. La Corea del Nord, guidata da Kim Jong-un, ha fatto dello sviluppo dell’arma nucleare uno dei pilastri della sua difesa e i tentativi americani di giungere a un accordo per la denuclearizzazione della Penisola sono naufragati e sono tuttora in stallo.
Sul tema si è espresso di recente un gruppo di esperti internazionali: secondo quanto riportato in un documento inviato al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Pyongyang avrebbe sviluppato dei dispostivi nucleari in miniatura da inserire all’interno dei missili di cui dispone e gli investimenti sul miglioramento dei sistemi balistici sono in aumento.
A far salire la tensione sono state anche le ultime dichiarazioni del leader nordcoreano. Secondo Kim Jong-un, chiunque interverrà contro la Corea è destinato a pagare un caro prezzo perché il Paese adesso «può difendersi in modo affidabile e incrollabile da pressioni ad alta intensità e minacce militari e ricatti da parte di reazionari imperialisti e forze ostili».
Le strade per risolvere la questione nordcoreana a oggi sembrano essere principalmente due: ritornare al tavolo dei negoziati e arrivare alla denuclearizzazione della Penisola, come previsto dai piani di Trump; portare la Corea a firmare degli accordi sul controllo dell’arsenale nucleare che riesca per lo meno a limitarne la potenza.
La nuova corsa agli armamenti
La situazione attuale riapre un capitolo che sembrava ormai superato: quello della corsa agli armamenti. «Le tensioni che il regime di non proliferazione sta sperimentando nascono dalla competizione che, negli scorsi anni, ha alterato la tradizionale distribuzione della potenza internazionale», spiega Gianluca Pastori, professore di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa dell’Università Cattolica a Linkiesta.
«Le ambizioni militari della Cina e l’obsolescenza degli arsenali di Stati Uniti e Russia sono i principali fattori che spingono verso la revisione dell’ordine esistente. Tuttavia, è difficile che ciò inneschi una corsa agli armamenti come quella che ha caratterizzato la Guerra fredda. Il ritorno delle armi nucleari statunitensi a raggio intermedio nel teatro Indo-Pacifico (annunciato qualche mese fa dal Segretario alla Difesa Mark Esper) sembra destinato a modificare poco gli equilibri attuali, date la disparità delle forze in campo, i limiti del dispositivo cinese e la possibilità che gli Stati Uniti hanno già ora di schierare altri elementi della triade», dice Pastori.
Per quanto riguarda invece il teatro europeo «la possibilità di dispiegare una nuova generazione di vettori a raggio intermedio passa in primo luogo per la disponibilità dei Paesi Nato ad accettarne la presenza sul loro territorio, disponibilità che non è scontata», spiega il professore. Ad avere un impatto sui prossimi negoziati per il New Start e sulla risposta europea, aggiunge Pastori, potrebbe essere lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma da parte della Russia.
«I membri europei della Nato appaiono, infatti, oggi, profondamente divisi sui temi del nucleare e della deterrenza. Non sembra quindi azzardato, per la Russia, scommettere sul fatto che l’aumento della minaccia percepita possa, alla fine, consolidare tale situazione, alimentando la tendenza in corso alla ri-nazionalizzazione delle politiche di sicurezza e difesa e accentuando il divario esistente sia fra Stati Uniti ed Europa sia all’interno di questa, fra Paesi più o meno sensibili alle scelte di Mosca», conclude Pastori.