Nell’ottobre del 2009, alla festa di inaugurazione del ristorante Ratanà, quartiere Isola di Milano, brindarono insieme costruttori e artisti – tra cui l’attore Antonio Albanese, socio del locale. Quella sera segnò una pacificazione simbolica, dopo uno scontro – durato anni – sul destino del quartiere.
Quasi tutti hanno ormai dimenticato, da quando questa è la vetrina dell’evoluzione di Milano: la torre Unicredit, la campagna gentile della Biblioteca degli Alberi, ma soprattutto il Bosco Verticale di Stefano Boeri, premiato come più bel grattacielo del mondo e protagonista incolpevole anche del famigerato video “Milano non si ferma”, memoria della fase di denial in cui la città si trovò impantanata alle prime avvisaglie dell’epidemia, nel febbraio 2020.
Ancora dieci anni fa, il progetto che avrebbe ripensato l’intero quartiere di Garibaldi, Varesine e Isola era aspramente contestato – non si parlava ancora di “gentifricazione”, la parola d’ordine dell’ultimo lustro, ma si protestava per il cemento. In via Melchiorre Gioia, dove sarebbe sorto il nuovo, serpeggiante, grattacielo della Regione, c’era allora una macchia d’alberi nota come “Bosco di Gioia”, a lungo strenuamente difeso da una variegata compagine di residenti del quartiere, consiglieri comunali di entrambe le fazioni e artisti milanesi: «Il più attivo su questo fronte» (citiamo da Repubblica, era il 2005) «era stato Rocco Tanica, musicista del gruppo Elio e le Storie Tese, chiuso per settimane in un camper davanti al bosco per sensibilizzare passanti e autorità cittadine». Rimane un improbabile inno di quella battaglia “Parco Sempione” degli EELST, appunto, con la sua chiusa in rima: «Hanno distrutto il bosco di Gioia / questi grandissimi figli di troia».
Meno di massa, ma altrettanto emblematica, era stata la battaglia – anche questa perduta – per salvare il luogo al posto del quale il Ratanà avrebbe, in epoca di Expo, collocato un orto didattico: era “La Nuova Idea”, che fu il primo locale gay della città: per metà discoteca con cocktail serviti a mestolate da bacinelle in plastica e go-go boys nelle gabbie sul soffitto; per metà balera con orchestra di liscio e uomini in drag.
Il Ratanà avrebbe occupato una delle sale della palazzina liberty di fine Ottocento divenuta sede della Fondazione Riccardo Catella, padre di quel Manfredi Catella che era all’epoca amministratore delegato di Hines Italia, la società immobiliare capocordata del progetto.
Quella sera, smaltito il risotto, le centinaia di ospiti sciamarono nella sala attigua, al centro della quale stava un plastico che mostrava l’aspetto che la zona avrebbe assunto nel giro di pochi anni. Serviva uno sforzo di immaginazione quasi erculeo: in quei giorni intorno alla palazzina si era appena cominciato a scavare le fondamenta dei primi cantieri. Quando le macchine avevano smosso la terra – riportavano le cronache – il quartiere si era riempito di topi.
Da allora sono passati 11 anni durante i quali Milano si è completamente trasformata, trascinata anche dall’attrattiva dei suoi nuovi quartieri. Nel frattempo, il Ratanà si è consolidato come uno dei ristoranti più iconici della città, soprattutto per merito dello chef Cesare Battisti, che ha saputo nel tempo tracciare il perimetro di un canone per la Nuova Cucina Milanese (le maiuscole se l’è meritate la Scandinavia con il suo New Nordic, figuriamoci qui).
Il 15 ottobre esce in libreria, per Guido Tommasi Editore, “Cucina milanese contemporanea”, ricettario e compendio della tradizione regionale ma anche manifesto del Battisti-pensiero, scritto con il giornalista Gabriele Zanatta e illustrato da Gianluca Biscalchin.
73 ricette per 13 capitoli, ognuno dedicato a un genere alimentare, dal riso alle rane, dal vitello al pane e dolci (solo la polenta ne merita uno tutto suo). Il libro dedica anche un insolito spazio agli artigiani da cui Battisti si rifornisce, diventando anche un utile indirizzario per il lettore. Ne abbiamo parlato con Cesare Battisti.
Complici gli spostamenti interni e la migrazione dal Sud, a Milano troviamo ogni cucina regionale italiana. Difficilmente troveremo invece un ristorante di cucina milanese fuori dalla Lombardia… È una tradizione minore?
Questo libro nasce proprio perché sentivamo il desiderio di ridare lustro alla cucina milanese, che delle mille tradizioni italiane non è certamente tra le più famose: è una cucina secondaria, considerata molto grassa. Inoltre, da molto tempo non si metteva ordine alla cucina milanese con un libro, forse dal ricettario “Vecchia Milano in cucina” di Ottorina Perna Bozzi, del 1965.
È vero, il ristorante milanese non esiste fuori dalla Lombardia, e nel mondo, per “cucina italiana” si intende in genere quella del Sud. Eppure, se dici risotto ovunque si pensa a Milano e allo zafferano, la “milanese” l’ho mangiata anche in Thailandia, e l’ossobuco è diffuso in tutto il mondo. Vogliamo parlare del panettone?
Lo zafferano costa al grammo quasi come l’oro, la costoletta alla milanese è un taglio pregiato di una carne altrettanto pregiata, il vitello: due delle specialità simbolo di Milano sono molto costose. La cucina milanese è una cucina per ricchi?
In parte è così. Dentro le mura, i nobili compravano i vitelli della Brianza dai beché, i macellai cui Francesco Sforza concesse lo statuto corporativo già nel 1458. Troviamo anche carne di maiale, o di oca – che allora era un animale selvatico, cacciato anche nel Parco Sempione, riserva del duca di Milano. Nel libro raccontiamo come la prima ricetta della cassœula non fosse di maiale, bensì d’oca: una preparazione che viene dalla Francia, e infatti si chiama anche “bottaggio”, una storpiatura del “potage” francese, la zuppa. Questa era la ricchezza, un tempo: non tanto il grasso – comunemente impiegato come conservante e utilizzato per friggere – ma la carne.
Fuori dalle mura, d’altro canto, le ricette tradizionali ci raccontano una cucina povera, a cominciare da polenta e minestrone. Per la mia cucina non faccio queste distinzioni: mi attengo a quello che mi disse il grande maestro Aimo Moroni ormai 15 anni fa: «Non esiste una cucina povera e ricca, esiste solo una cucina intelligente». Un concetto che si applica a qualsiasi alimento di stagione, trattato con rispetto.
La grassezza della tradizione milanese è forse il peccato più grave per una cucina attuale. Cosa serve per portare la cucina milanese nella contemporaneità?
A Milano ci sono quattro stagioni come ovunque, eppure la cucina milanese celebre è quella invernale: per questo la parte del libro dedicata alle ricette estive è quella che ha subito più integrazioni. Attenzione, però: questo non è il classico libro da cuochi, autocelebrativo. Non sono tanto le mie ricette, quanto un racconto della cucina milanese contemporanea. Non che mi voglia autonominare il responsabile della cucina milanese [ride] ovviamente – nessun singolo cuoco lo è.
La direzione è la leggerezza per tutte e quattro le stagioni: complice anche il cambiamento climatico, per cui ormai a fine febbraio troviamo già gli ortaggi della primavera. In inverno rimangono i piatti della tradizione, ma con tecniche nuove che li rendono più leggeri.
Inoltre, la cucina in generale si è molto evoluta, in direzione di un maggiore equilibrio. Prendiamo il risotto zucca e amaretti: ha un gusto antico, sbilanciato sul dolce e poco armonico. Serve una sferzata, e per questo nel libro aggiungiamo la ‘nduja calabrese – sgrassata, in polvere, è il complemento ideale.
Milanesità a parte, come è evoluta la tua cucina dall’apertura del Ratanà a oggi?
Un ristorante non può più stare fermo: evolve o involve. Se guardo alcuni dei piatti che facevamo dieci anni – lo dico senza vergogna – fatico a riconoscerli: come l’insalata di filetto con aceto balsamico, creata quando ero chef alla Locanda Solferino, nei primi anni Duemila. Fu un piatto molto imitato, si trovava ovunque. O un’insalata di aragostelle con la coulis di lamponi, o il risotto fontina e barolo: erano piatti buoni, ma avevano il limite di pensare solo al sapore e alla gradevolezza, senza attenzione alla storia né a ciò che mi stava intorno.
Adesso mi piace studiare da dove arriva ciò che finirà nel piatto, anche perché credo nell’importanza di una cucina buona ma anche sostenibile. Prendiamo un’altra ricetta di questo libro, la zuppa di pesci d’acqua dolce: perfetta tra dicembre e gennaio, quando la stagionalità è all’apice. La bisque di gamberi d’acqua dolce ha un sapore che ricorda l’aragosta: convincerà anche chi crede di non amare il pesce d’acqua dolce.
Quando si parla di sostenibilità in genere si intende rispetto dell’ambiente e della stagionalità, ma negli ultimi anni sta emergendo l’aspetto umano. Sappiamo che il lavoro in cucina è tradizionalmente un ambiente tossico, tra orari di lavoro troppo lunghi, consumo rampante di sostanze, violenze verbali e non solo.
Quello descritto è esattamente l’ambiente in cui mi sono formato, con il risultato che dopo ogni servizio tornavo a casa esaurito alle tre di notte, mi svegliavo la mattina ed ero già nervoso. Arrivare a un passo dal crollo mi ha fatto capire che avevo bisogno di lavorare in maniera diversa: è stata un’evoluzione personale e graduale, che mi ha portato in dieci anni a creare un ambiente di lavoro che considero sereno e didattico. A me non è venuto immediatamente naturale costruire una squadra – è molto più difficile nel breve termine rispetto a dire: «Sono lo chef, qui comando io», ma io passo più tempo insieme ai miei collaboratori che con i miei figli, e voglio che tutti torniamo a casa sereni. Ai piatti che entrano nel menu collabora tutta la squadra, e oggi il Ratanà è il risultato di tutte le persone che ci sono passate dentro e che hanno lasciato qualcosa.
Concretamente, questo vuol dire che ormai da anni tutti i dipendenti hanno due giorni consecutivi di riposo – è complicato a livello organizzativo, ma è indispensabile per l’equilibrio con la vita privata. Non siamo ancora arrivati a fare le otto ore, come sarebbe giusto: lavoriamo circa 10 ore al giorno, ma i margini di questo lavoro sono troppo bassi per avere più personale e quindi lavorare meno.
I prossimi dieci anni della cucina milanese?
Il 2020 non è l’anno per essere progettuali. Ma non ho dubbi che Milano riprenderà a crescere.