È più o meno dal secondo episodio di We Are Who We Are che un pensiero mi frulla per la testa: il sottotitolo della (meravigliosa) serie tv di cui Luca Guadagnino è regista nonché co-sceneggiatore, insieme a Paolo Giordano e Francesca Manieri – dal 9 ottobre su Sky Atlantic – potrebbe tranquillamente essere And What We Eat. La relazione stretta, quasi inscindibile, di Guadagnino con la cucina non è d’altronde una novità, da Io sono l’amore (le cene borghesissime e formalissime della famiglia Recchi; la passione che scoppia tra Emma/Tilda Swinton e il giovane chef Antonio/Edoardo Gabbriellini) fino a Chiamami col tuo nome (le colazioni, i pranzi e le cene nella villa in campagna; i tortelli cremaschi, la famosa e discussa pesca). We Are Who We Are non solo non fa eccezione, ma amplifica come non mai questo legame, al punto che è proprio il cibo a tratteggiare in maniera più definita i personaggi, è proprio il cibo l’unico protagonista di alcune scene cruciali, è proprio il cibo, infine, a segnare un punto di svolta in determinati momenti.
La serie, lo sanno anche i muri, segue le vicende di un gruppo di adolescenti figli di ufficiali in una base militare americana in Veneto – appena fuori Chioggia – nell’estate del 2016, pochi mesi prima che Donald Trump vincesse le elezioni presidenziali. C’è Fraser (Jack Dylan Grazer), il figlio disadattato e ribelle della nuova comandante della base, Sarah (Chloë Sevigny), arrivata in Italia insieme alla compagna Maggie (Alice Braga); c’è Britney (Francesca Scorsese), che è sfacciata, tenace, e sembra non avere paura di niente; c’è Caitlin (Jordan Kristine Seamón), che passa la maggior parte del tempo a essere la bambina che suo padre Richard (Kid Kudi) vuole che sia; c’è Danny (Spence Moore II), suo fratello, che è decisamente più legato alla madre Jenny (Faith Alabi), e cerca con fatica di scendere a patti con le proprie origini nigeriane.
«I supermercati delle basi militari sono tutti uguali dappertutto» spiega Britney, che è già stata sballottata in Germania e Corea del Sud, al neoarrivato Fraser nel primo episodio. «Stesse corsie, stessa roba, tutto è nello stesso identico posto. Dicono che lo fanno in questo modo così non ci perdiamo». Eppure, ognuno di loro sembra perso a modo suo, e solo incontrando quello che apparentemente rappresenta il proprio opposto riuscirà ad avventurarsi con coraggio e cognizione di causa verso la scoperta e l’accettazione di chi è davvero.
Fraser e Caitlin, tanto per cominciare, a una prima occhiata non potrebbero essere più diversi; lo scontro e il conseguente avvicinamento tra i due avviene, guarda caso, al bancone di un bar, davanti a due birre ghiacciate. Lui, figlio di una coppia lesbica, nemico giurato del fast fashion ma odiosamente (e dispendiosamente) trendy, amante della poesia, profondamente antiamericano: invece del «nostro solito arrosto di merda» preferisce sperimentare il baccalà mantecato; toglie a sfregio le stelle e il suffisso «Wel» dalla scritta «Welcome» che accompagna la torta di benvenuto decorata con la bandiera statunitense; loda il lassismo italiano in fatto di alcolici («È strano che non ti chiedano un documento per ordinare il vino qui. Ecco perché questo è un Paese civile»).
Lei, nata e cresciuta in un ambiente conservatore, il padre afroamericano supporter di Trump (tanto da ordinare per sé e per l’adorata prole i cappellini MAGA), la madre un po’ svanita che s’è annullata a vivere una vita non sua, il bacon a colazione, gli anelli di cipolla e gli hot dog durante la partita di baseball, i biscotti industriali acquistati senza pensarci troppo. «Che c’è dentro?», domanda Fraser quando Caitlin gliene offre uno, spiegandole poi che si rifiuta di mangiare molluschi. «Sono biscotti», ribatte l’amica, «perché sei così complicato?», salvo ricredersi alla lettura ad alta voce della lista degli ingredienti: «devi smetterla di comprare in quello spaccio schifoso», la redarguisce, e lei butta il contenuto della scatola nella laguna, in un gesto insieme liberatorio e sfrontato che non ci si aspetterebbe dalla cocca di papà. Fraser la pungola – «mi prendo cura delle mie cose, delle cose che amo. È qualcosa che dovresti fare anche tu» – e Caitlin inizia a traballare, a porsi delle domande, a mettere in dubbio tutto, partendo da sé stessa.
In questo microcosmo di militari espatriati che ricrea la propria America in Italia, in questa comunità chiusa che di tanto in tanto si permette degli strappi alla regola coperti dal sotterfugio, la solitudine, lo straniamento e il senso di prigionia non appartengono soltanto ai teenager. Nel terzo episodio altri due personaggi che paiono agli antipodi arrivano a sfiorarsi e a comprendersi, passeggiando per le strade di Chioggia con una torta di mele sottobraccio. Maggie è la moglie della comandante Sarah, ed è a sua volta medico presso la base; Jenny è la madre di Caitlin e Danny, moglie del colonnello Richard, casalinga al servizio della famiglia e di un marito piuttosto arido nei suoi confronti, una che – per sua stessa ammissione – col tempo ha smarrito persino la sua fede islamica. «Prima ero un sacco di cose. E poi ho smesso di essere un sacco di cose. La verità è che non so più chi sono», confessa senza imbarazzo e con una punta d’amarezza, mentre si rende conto d’aver immolato le proprie radici sull’altare di un matrimonio che la sta soffocando.
«Tu sei nigeriana, vero? Cucini mai la zuppa egusi?», le chiede Maggie. «A Richard non piace. L’hai mangiata?», «Una volta, ed è buonissima»: Jenny è lusingata e stupita, come può una donna con un vissuto totalmente antitetico rispetto al suo – brasiliana, lesbica, liberal – ricordarle ciò che lei s’è dimenticata di essere? «Vogliono solo che cucini cibo americano», si schernisce, ma Maggie non molla la presa e decide di calare la domanda da un milione di dollari, la domanda che non ha una risposta esatta perché la risposta esatta, paradossalmente, non esiste: «qual è il cibo americano?». Ed è così, chiacchierando di cucina, delle loro origini e dei loro trascorsi, che le due donne capiranno di condividere il medesimo fardello, quello di compagni ingombranti, rei di schiacciarle con modalità differenti al punto che «a volte, quando mi bacia, è come se non sapesse chi sono io. Non s’accorge di me. È come se stesse baciando uno specchio».
Infine ci sono le mani, che sanciscono un rapporto quasi carnale col cibo, al limite dell’erotico. Sono le mani che Jenny e Maggie affondano nella torta di mele, fregandosene di buone maniere e posate, le dita che tagliano sommariamente le fette e il rumore viscoso della farcitura che riempie le orecchie. Sono le mani con cui i ragazzi mangiano gli spaghetti al pomodoro direttamente dalla pentola nel quarto episodio, sporcandosi ovunque e lasciando che il pasto si trasformi in una food fight con tutti i sacri crismi. Sono le stesse mani che s’infilavano nella pesca con cui Elio/ Timothée Chalamet finiva per masturbarsi in Chiamami col tuo nome.
Il cibo e la cucina, nelle mani (ops, di nuovo!) di Luca Guadagnino diventano simboli amorosi e sessuali, poesia, un’ulteriore chiave di lettura dei suoi multisfaccettati personaggi: siamo quello che siamo, e quello che mangiamo – unitamente a come lo mangiamo – ci rivela la nostra reale natura, le nostre paure, le nostre stranezze, le nostre idiosincrasie, le nostre passioni. Tutte cose che a volte, per uscire allo scoperto senza vergogna alcuna, hanno un dannato bisogno di un’apple pie fatta come dio comanda.