Possiamo aprire fino alle 23. No, solo il sabato e la domenica, ma fino alle 18. Forse ci lasciano aperti solo a pranzo, ma non il weekend. E poi togli i tavoli, metti il plexiglass, sanifica, prendi la temperatura, firma la dichiarazione.
E alla fine chiudi, ma solo la sera. Poi vediamo il da farsi, ma forse domani chiudiamo tutto. Ma solo nelle zone rosse, o in quelle arancioni, vedremo.
Di DPCM in DPCM, di ordinanza in ordinanza, ma soprattutto di spoiler in spoiler, le cose cambiano alla velocità della luce, senza schema, senza costrutto, senza senso, il più delle volte. Di sicuro senza organizzazione alcuna: potrò fare le brioche domattina? Copro la carne per le costolette o lascio perdere?
Circola tra i ristoratori una profonda incertezza che lascia ancora più sconfortati e senza piani per il futuro, in un momento in cui sapere che cosa succederà domani è fondamentale, non potendo prevedere che cosa capiterà nei prossimi mesi. Lo sciame di notizie che ha colpito gli chef e i ristoratori in questi ultimi 30 giorni e il disordine organizzativo che ne consegue, sono tra le implicazioni più preoccupati che questa seconda ondata di virus lascia nell’aria delle città italiane, nel più triste autunno di questo secolo.
Per creare una comunicazione più immediata e per dare voce diretta alle cucine dei ristoranti italiani qui a Gastronomika abbiamo ideato “Coprifuoco”. Era alle 23, i primi giorni, poi si è riallineato con il nuovo orario di chiusura delle cucine, alle 18, oggi vedremo quando sarà, a seconda delle nuove norme.
Sul lato alto del telefono il direttore di Gastronomika, Anna Prandoni. Su quello basso tante facce di chef, di patron e gestori di ristoranti: visi che danno la misura di come questa seconda chiusura abbia segnato il lavoro quotidiano e le prospettive dei migliori ristoranti italiani e dei suoi protagonisti.
Hanno finito la loro giornata di lavoro o stanno cominciando quella dedicata all’asporto e raccontano le loro sensazioni, con la divisa bianca sbottonata, la sala vuota e l’ambiente in chiaroscuro.
Le emozioni, forti vissute in questo periodo rendono queste chiacchierate più vere, più scavate e ci lasciano volti di persone esauste e spaesate, ma sempre sorridenti e ottimiste, solo qualche volta sconsolate.
I 25 minuti di video fanno uscire non solo il lato umano dei protagonisti della ristorazione italiana, ma anche quello imprenditoriale, di tanti che fanno i conti, propri e dei propri dipendenti, nel tentativo vano di trovare una soluzione creativa che possa portare a un risultato positivo. La volontà istintiva di rilancio è misurata dalla razionalità e dalla ricerca di un buon business plan. «Ogni progetto in questo periodo deve essere prima di tutto sostenibile. Non si può iniziare nulla se non si dà la giusta copertura dei costi», dice Tommaso Arrigoni, una stella Michelin a Innocenti Evasioni, Milano.
Esce anche la passione per la cucina e per il proprio mestiere, quasi «un’ossessione struggente», dal dipinto poetico di Alberto Gipponi, chef del Dina di Brescia, che si descrive come un’anima insofferente, che punta sempre al proprio miglioramento.
Ma su tutto esce lo straordinario rapporto con la propria clientela, che non è meramente di servizio, non è più solo un do ut des di natura economica, ma è una relazione di interdipendenza, fatta di affetti reciproci e di grande dedizione. «L’affetto dei clienti sta salvando la ristorazione in questo momento», dice Filippo La Mantia, a cui si unisce la commozione di Corrado Scaglione che sta facendo le consegne delle sue pizze di persona, «Conoscere la casa dei clienti aumenta il legame e il collegamento simbiotico con noi ristoratori. È stato il momento più social che si poteva creare».
L’esigenza che emerge più spesso è il desiderio di creare una rappresentanza forte, unitaria, che possa portare avanti le istanze di questa categoria così fortemente maltrattata: «Sul nostro lavoro il governo è stato distratto», queste le parole di Cesare Battisti, patron del Ratanà, che spiega come siano state erroneamente accomunate realtà completamente differenti tra loro. Segretario generale dell’associazione Ambasciatori del Gusto, Battisti ritiene che sia un errore continuare a considerare la categoria dei ristoratori come “artigianale”. Si tratta di imprenditori a tutti gli effetti e sarebbe corretto che esistesse una regolamentazione del settore più specifica e dedicata. C’è un tavolo di lavoro aperto con il governo ed è quella la sede in cui trovare soluzioni concrete e reali. Sperando non sia troppo tardi, quando avverrà.
Stessa sensazione di abbandono per Tunde Pecsvari, di Osteria Brunello a Milano e della catena Macha, determinata a rimanere in piedi ma anche sconsolata dalla disorganizzazione delle ultime ore. Sul profilo facebook fa un appello ai suoi clienti: «Noi all’ Osteria Brunello Milano oggi (martedì, ndr) alle ore 14.50 abbiamo venduto l’ultima cotoletta. Dal momento in cui ancora adesso non sappiamo se domani saremo aperti o no, abbiamo ritenuto corretto non procedere con ordini di materie prime. Pertanto, se domani ci sarà permesso aprire, chiederemo la comprensione dei nostri clienti per non poter offrire, per la prima volta nella nostra storia, la cotoletta alla milanese. Colgo anche l’occasione per ricordare che la ristorazione ormai da otto mesi sta lavorando in condizioni letteralmente impossibili. Abbiamo bisogno del sostegno di tutti e della disponibilità di capire il momento. In questo periodo, in queste condizioni, è un miracolo anche solo riuscire ad aprire e dare da mangiare, spero davvero che tutti siano consapevoli quali immensi sforzi stia facendo la ristorazione e l’aiutino anche solo con la comprensione e la pazienza. Grazie».
Alcune soluzioni ci sono, come le buone notizie e la voglia di ripartire; le proposte che gli chef ipotizzano sono differenti. Chi vuole rilanciare, chi non ne può più e chiede un intervento dello Stato. Ci saranno asporto e delivery e per un po’ e per qualcuno i pranzi, ci saranno idee nuove e ci sarà qualcuno che sceglierà di non aprire più, come La Locanda La Clusaz di Piergiorgio Pellerei a Gignod, che pochi giorni fa ha comunicato sul proprio sito lo spegnimento definitivo dei fornelli.
E per qualcuno che chiude per sempre, qualcuno rompe il muro della concorrenza e del marketing, dimostrando quanto questo periodo irreale sia davvero fuori da ogni schema prevedibile. È il caso di Burger King, che promuove i suoi competitor pur di spingere il mercato e i consumatori a non mollare il settore.
I luoghi di consumo del cibo sono luoghi del cuore, che è forse l’aspetto più importante su cui il DPCM non ha fatto valutazioni. Chiudere i ristoranti per molti è chiudere un luogo di emozioni e di sicurezza che non è facile ricostruire, come se ci impedissero di vivere una zona della nostra città o un suo paesaggio.
Non c’è discriminazione sociale, perché il luogo del cuore non è solo un ristorante stellato, ma può essere una piccola trattoria di campagna o una baita in montagna; è il calore di chi quel posto lo occupa e lo anima che trasmette la voglia di tornare, insieme ovviamente a quello che lo chef riesce a costruire nel piatto.
Tutto è fatto per creare questo rapporto, tutto questo, in questi giorni viene un po’ a mancare e non solo per i gastrodeliranti.
Il ruolo sociale della ristorazione, come collante di intere comunità è ampiamente sottovalutato e di questo, forse ne hanno un po’ colpa anche i social-comunicatori, che danno sempre più importanza al contenuto del piatto piuttosto che a quello che si crea intorno ad esso.
Se si percorrono le periferie delle grandi città italiane, i paesi piccoli e lontani, sempre e da sempre rimane una luce accesa la sera che fa compagnia e rallegra la comunità. Se manca quella luce si spegne anche il sorriso che solo un oste sa dare. Di questo valore – forse – dovremmo parlare.