La degenerazione della campagna trumpiana in una sfida aperta alla scienza, alle più evidenti verità di fatto e all’idea stessa che la vita umana venga prima di tutto – prima dei soldi, o almeno prima dei sondaggi – ha permesso a Donald Trump di scavare il solco più profondo che un leader politico possa tracciare tra il proprio campo e il fronte avversario: quello tra la vita e la morte.
Coerente con questa impostazione, con la trasformazione della Casa Bianca in un focolaio dell’epidemia e l’ostentato rifiuto delle più elementari precauzioni, il presidente ha chiesto a collaboratori e sostenitori una prova di fedeltà degna di un faraone. Se gli elettori gli daranno ragione, al lungo elenco delle abiezioni trumpiane che bisognerà rassegnarsi a considerare legittimate, dovremo dunque aggiungere anche il gusto per i sacrifici umani.
In altre parole, tutti coloro che nel corso di questi anni hanno insistito nel condannare il carattere eversivo del trumpismo, giudicandolo un’aberrazione dai principi fondanti della democrazia occidentale, dovranno fare i conti con l’eventualità che l’aberrazione diventi la norma.
Con il loro voto, infatti, gli americani decideranno anzitutto questo, e non solo per se stessi, ma per l’intero occidente: cos’è la normalità. In tal senso, il controverso parallelo tra trumpismo e berlusconismo, comunque si giudichi l’accostamento tra i due magnati prestati alla politica, può avere un obiettivo valore euristico.
La vittoria del presidente, infatti, non solo confermerebbe la tesi di chi vedeva nel fronte anti-Trump la stessa miopia, gli stessi tic e la stessa impotenza dell’antiberlusconismo delle origini, ma sancirebbe soprattutto la validità del parallelo per quanto riguarda – ahinoi – la durata e l’influenza della sua avventura personale sulla politica degli anni a venire.