Riassunto delle puntate precedenti: l’impennata dei contagi sembra inarrestabile; il sistema di tracciamento, vale a dire quell’insieme di misure che avrebbe dovuto permetterci di tenerli sotto controllo, è saltato, per ammissione di vari responsabili e della stragrande maggioranza degli esperti, praticamente sin dal primo giorno della ripresa autunnale (o più verosimilmente non ha mai funzionato); in gran parte d’Italia gli studenti delle superiori sono già tornati alla didattica a distanza; titolari di ristoranti, palestre, cinema e teatri, dopo avere investito per adeguarsi ai protocolli indicati dal governo, hanno già dovuto richiudere, mandando a spasso i rispettivi lavoratori. Fine del riassunto.
E siamo a ieri, per la precisione alle ore 10.03 del mattino, quando Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ed esponente di primo piano del partito che esprime il capo del governo, dinanzi a una situazione così drammatica tanto sotto il profilo sanitario quanto sotto il profilo economico e sociale – una situazione certo non imprevedibile eppure clamorosamente non prevista da un esecutivo che ha finito evidentemente per credere alla propria stessa propaganda – decide di prendere la parola. Per dire cosa? Tagliare gli stipendi dei parlamentari. Proprio così. Nella sua tragica, surreale e ovviamente involontaria comicità, la prosa del ministro degli Esteri merita di essere riportata testualmente, come appare sul suo profilo Facebook. «Davanti al virus, davanti a oltre 21mila contagi in 24 ore, davanti a 37mila morti in Italia dall’inizio della pandemia – scrive Di Maio – la politica deve dare il buon esempio».
Chiaro? Dare il buon esempio, non rimettere in piedi un sistema di tracciamento degno di questo nome, non rispondere di tutto il tempo perso a vantarsi di come avevamo sconfitto il virus, non preoccuparsi delle file chilometriche per i tamponi, o di autobus, metropolitane e treni strapieni, o degli ospedali presi d’assalto, o dei medici di base letteralmente travolti dalla marea.
No, la priorità è un’altra. Testuale: «Riprendiamo la discussione iniziata a marzo, quando scoppiò la pandemia: tagliamo gli stipendi dei parlamentari ed eliminiamo qualsiasi tipo di privilegio della politica». Scrive proprio così, Di Maio, senza evidentemente accorgersi dell’assurdità della frase. Riprendiamo la discussione iniziata a marzo. Prima che la pandemia ci interrompesse.
Non meno significativo è che una simile proposta arrivi appena un mese dopo l’esito del referendum che farà sì che l’Italia abbia il più basso numero di parlamentari in rapporto alla popolazione dell’occidente democratico, a riprova di quanto il merito delle questioni non abbia alcuna importanza. L’unica cosa che conta è reiterare ossessivamente sempre lo stesso gioco, alimentando l’isteria anticasta e tentando di indirizzare la rabbia sociale contro la politica e le istituzioni, pensando di riuscire ancora e sempre a cavalcare la tigre, persino adesso che al vertice della politica e delle istituzioni ci sono loro. Per una ragione semplicissima: che non sanno fare altro. Com’è purtroppo sempre più tragicamente evidente.
Se volevate una dimostrazione concreta di quanto i partiti populisti siano la negazione stessa del principio di responsabilità e della capacità di governo, e dell’assoluta illusorietà di qualsiasi ipotesi di conversione, maturazione o «romanizzazione» dei barbari una volta arrivati al potere, non potevate trovarne una migliore, nemmeno nell’America di Donald Trump, che resta comunque con ogni evidenza il vero modello politico del Movimento 5 stelle (come di tutti i populisti europei).
A questo punto, però, sarei curioso di sapere cosa farà il Partito democratico – seguirà anche questa volta, vedremo anche i compiti costituzionalisti del Pd posare in piazza Montecitorio mentre impugnano delle belle forbicione di cartone assieme ai compagni grillini? – e in particolare sarei curioso di sapere cosa diranno quelle correnti che con maggiore convinzione hanno teorizzato la costruzione di una «alleanza strutturale», niente di meno che un nuovo centrosinistra con Di Maio e associati. Come la nascente – o rinascente – corrente bettiniana, che pensa addirittura a una rivista sul modello del Politecnico di Elio Vittorini.
«Modello altissimo», si è giustamente schermito Goffredo Bettini, probabilmente pensando a quando dovrà pubblicarci i saggi di Danilo Toninelli (ma personalmente ci leggerei volentieri anche una più approfondita riflessione di Giuseppe Conte su quella storia dell’8 settembre e del miracolo economico, che sono due anni che ci penso e ancora non l’ho capita).
Nel frattempo, il presidente del Consiglio continua a ripetere che a dicembre avremo il vaccino (proprio come Trump); la viceministra all’Economia Laura Castelli dichiara che i 37 miliardi del Mes per la sanità non ci servono a niente e che è l’ora di finirla con «misure anticicliche» (evidentemente convinta, come ha osservato Luciano Capone, che le misure pro-cicliche siano il bonus bicicletta e il bonus monopattini); la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina spiega a un attonito Fabio Fazio che i termoscanner a scuola non servono perché la temperatura va misurata prima di uscire, e quando il conduttore le fa presente che non è una buona ragione per non misurarla anche all’ingresso, come si fa ovunque, Azzolina replica che ci sono istituti con tremila studenti e si creerebbe una fila di tre chilometri. E aggiunge pure, sbuffando, che «le scuole bisogna conoscerle per prendere certe decisioni». Segue un dialogo che per assurdità – a ennesima conferma della tesi – può essere paragonato solo a certe interviste di Trump.
Fazio: «Ma se andiamo a farci tagliare i capelli e ci misurano la febbre all’ingresso con il termoscanner…». Azzolina: «Peccato che la scuola è un’organizzazione molto molto più complessa». Fazio: «Però il termoscanner ce l’abbiamo persino qua, entriamo in Rai, passiamo, non ce ne accorgiamo nemmeno». Azzolina: «Sì, ma non siete tremila che entrano tutte le mattine». Fazio: «No, la Rai ha 14mila dipendenti, ministro». Azzolina: «Ma non entrano la mattina tutti insieme…». Fazio: «Io spero di sì, perché se no è un guaio». Azzolina: «No, intendo come per la scuola…».
Mi fermo qui, ma potrei andare avanti a lungo, soffermandomi in particolare sul finale in cui, all’ultima obiezione del conduttore sul fatto che non tutte le scuole hanno migliaia di studenti, con voce dolente e sentendosi finalmente di nuovo sicura della sua parte, Azzolina dichiara: «Guardi che con i tagli che sono stati fatti negli scorsi anni…».
Sarà stato il frutto, anche lì, delle diaboliche politiche anticicliche dei governi del Pd? Non vedo l’ora di leggerne la serrata critica nella nuova rivista bettiniana, tra un appello ai fratelli in camicia gialloverde e una disquisizione sul concetto di egemonia applicato alle votazioni su Rousseau. Per il nome, tutto considerato, suggerirei: il Pirotecnico.