Quando nell’agosto del 2016, vale a dire nella fase cruciale della corsa alla Casa Bianca, Trump annunciò Steve Bannon quale direttore esecutivo della sua campagna elettorale, la candidata democratica Hillary Clinton pensò che si trattasse di un’occasione da non perdere. In un discorso a Reno in Nevada, spiegò che quella scelta dimostrava l’adesione del tycoon all’«ideologia razzista nota come Alt-Right». Diede così, involontariamente, un’inattesa visibilità alla alternative right, la quale rielaborava e diffondeva attraverso i nuovi mezzi di comunicazione le vecchie proposte (deportare in massa gli immigrati, erigere barriere fisiche ed economiche in difesa della nazione) e ossessioni (il globalismo, il multiculturalismo, il femminismo, l’omosessualità, l’estensione dei diritti civili, il controllo delle armi) della destra reazionaria.
La costellazione ideologica a cui può essere ricondotta l’Alt-Right è stata anche indicata, nel corso del XX secolo, come radical right, denominazione che, però, sembra alludere a un parallelismo in senso critico tra il «radicalismo» di destra e quello di sinistra. Nella stessa prospettiva, Richard Hofstadter introdusse la nozione di «stile paranoico» per indicare l’idea fissa di una grande cospirazione, serpeggiante a suo avviso in manifestazioni «estreme» della cultura politica americana, dal People’s Party alla «caccia alle streghe» anticomunista del senatore McCarthy.
Meno fuorvianti della metafora psicotica sono state proposte come preservatism e ultraconservatism. Ciononostante, sembra ancora più adeguato descrivere la Alt-Right quale riproposizione di una «destra reazionaria» per via del suo principale obiettivo ideologico: preservare, restaurare ed espandere i diritti e i privilegi di un gruppo sociale – i cittadini americani bianchi, nativi, cristiani ed eterosessuali – rappresentato come se fosse esposto alla minaccia incombente di estinzione. Oltre a collocarsi nel quadro storico-ideologico statunitense, la Alt-Right non è priva di connessioni con il più ampio scenario globale delle nuove destre, di cui condivide, per molti versi, le tesi di fondo e le strategie. Cruciale, in tale prospettiva, è la nozione di «metapolitica» ripresa nell’uso proposto dallo svedese Daniel Frieberg. Obiettivo della AltRight, in quest’ottica, non è di dare vita a un partito, bensì di modificare gradualmente la visione diffusa della politica e di disseminare, a tal fine, idee, valori e pratiche. La metapolitica, in ultima analisi, è un lavoro culturale e sociale «preparatorio», compiuto nella prospettiva di un profondo cambiamento politico.
Sullo sfondo dell’Alt-Right vi è, in particolare, l’esperienza della Nouvelle Droite, originatasi in Francia alla fine degli anni Sessanta e ispirata alle opere di Alain de Benoist. In chiave «metapolitica», il gruppo di studio da lui animato si proponeva di dare vita a un movimento d’opinione con l’obiettivo di sfidare il punto di vista culturale dominante. Non mancava, in tale prospettiva, una ripresa metodologica delle idee di Antonio Gramsci sull’egemonia: la destra doveva dotarsi di spazi culturali – questa la tesi centrale – per intercettare e modificare le strutture mentali della collettività. Architrave concettuale era, in particolare, la concezione etno-nazionale della comunità politica: pur rigettando le accuse di razzismo, la Nouvelle Droite delineava i contorni dell’identità nazionale sulla base di pretese «differenze naturali», guardando, conseguentemente, in termini negativi al meticciato etnico e alle dinamiche della globalizzazione.
La Alt-Right è erede, inoltre, delle tendenze della destra reazionaria statunitense che, nel corso della seconda metà del XX secolo, sfidarono gli indirizzi prevalenti del conservatorismo mainstream e del neoconservatorismo. Fucina del primo, nell’epoca della Guerra fredda, fu soprattutto il circolo della National Review, periodico fondato nel 1955 da William F. Buckley. Esso divenne la più autorevole voce intellettuale della destra, con l’obiettivo di contrastare l’egemonia della stampa liberal e di riorientare i repubblicani verso un più vigoroso impegno anticomunista. Il circolo della National Review concepiva se stesso come una sorta di «ombrello» culturale conservatore, relativamente aperto e inclusivo, senza un credo univocamente e rigidamente definito.
Negli anni Sessanta, sia pure in polemica contro le battaglie radicali per i diritti civili, la rivista marginalizzò le posizioni più esplicitamente razziste (talvolta ospitò, piuttosto, un razzismo indiretto e sofisticato). Non ammise, in tal senso, alcuna connessione con la destra neonazista e antisemita americana, come quella della Liberty Lobby, organizzazione fondata alla fine degli anni Cinquanta da Willis Carto, che promosse la diffusione delle tesi negazioniste negli Stati Uniti, oltre a proporre il «rimpatrio» dei neri americani in Africa. Per analoghe ragioni di «rispettabilità», i cold warriors della National Review non davano ospitalità ai rappresentanti della John Birch Society, portavoce di una versione cospirazionista e isolazionista di anticomunismo, i cui militanti erano convinti che il comunismo avesse già conquistato buona parte del mondo, che l’Organizzazione delle Nazioni Unite non fosse altro che una «internazionale comunista» e che il «cancro collettivista» fosse presente in stadio avanzato anche negli Stati Uniti. Infine, i conservatori alla Buckley non intendevano intrattenere rapporti con la destra ultralibertaria dei seguaci di Ayn Rand, scrittrice di origine russa che aveva posto le premesse per il cosiddetto anarco-capitalismo, sviluppato poi, come si è visto, da autori come Murray Rothbard.
Le molteplici declinazioni della destra reazionaria – razzista, cospirazionista, ultralibertaria – erano rimaste, dunque, marginali di fronte al conservatorismo mainstream di Guerra fredda. A questo, invece, si affiancò, a partire dalla fine degli anni Sessanta, il cosiddetto «neoconservatorismo», emerso in risposta alla New Left e alla «controcultura» nate dalla ribellione giovanile, alle lotte per i diritti civili e all’andamento disastroso della guerra condotta dagli Stati Uniti in Vietnam. A differenza dei conservatori che li avevano preceduti, gli intellettuali neoconservatori, a partire dai due «padri» del movimento, Irving Kristol e Norman Podhoretz, assegnarono a se stessi un obiettivo più ambizioso. Con un passato, talvolta, da militanti nelle file della sinistra radicale trockista, essi ritenevano di doversi proporre quale minoranza intellettuale «rivoluzionaria», in grado di ridare vigore alle élite del paese e di rilanciare la fiducia nei valori liberaldemocratici americani, in patria così come a livello internazionale.
Anche i neoconservatori, come i cold warriors loro predecessori, dovettero contrastare la sfida proveniente dalla destra reazionaria, la quale trovò espressione soprattutto nel cosiddetto «paleoconservatorismo». Negli anni Ottanta, i paleoconservatori parvero in effetti costituire una concreta alternativa all’egemonia culturale dei neoconservatori. Precorrendo molti temi della successiva Alt-Right, l’ideologia paleoconservatrice si basava sul netto rifiuto della liberaldemocrazia, su un esasperato nazionalismo e sul razzismo; manifestava scetticismo nei confronti degli impegni internazionali degli Stati Uniti; auspicava una svolta protezionista nelle politiche commerciali; si opponeva apertamente agli sforzi statali-federali per promuovere l’eguaglianza razziale. Paleoconservatori e neoconservatori giunsero pubblicamente allo scontro quando, nel 1981, Ronald Reagan dovette nominare il presidente del National Endowment for the Humanities, l’agenzia federale che si occupa di ricerca e programmi pubblici in campo umanistico. Si profilò la candidatura di Mel Bradford, un accademico di chiaro orientamento paleoconservatore, che non esitava a esprimere nostalgia per la cultura e le istituzioni del «vecchio Sud» razzista.
da House of Trump. Ritratto di una presidenza privata, di Giovanni Borgognone, Egea 2020