Quello che nei giorni scorsi era un timore, sussurrato nei corridoi delle istituzioni di Bruxelles, si è trasformato oggi in una realtà. I governi di Polonia e Ungheria non intendono approvare il pacchetto del bilancio europeo. Il loro veto blocca anche l’attivazione del Next GenerationEU: il rischio concreto è quello di un consistente ritardo nell’avvio del programma e, di conseguenza, nell’erogazione 750 miliardi di euro previsti agli Stati Membri.
Il muro polacco e ungherese è stato alzato ufficialmente durante il Coreper, la riunione preparatoria del Consiglio dell’Unione Europea in cui gli ambasciatori dei 27 Paesi UE rappresentano le istanze dei loro governi.
Ma occorre fare un passo indietro per capire questa decisione: il 5 novembre Parlamento e Consiglio Europeo avevano raggiunto l’accordo per un meccanismo che vincoli l’erogazione dei fondi comunitari al rispetto dello Stato di Diritto e che si sarebbe applicato anche ai soldi del bilancio europeo (Qfp – Quadro finanziario pluriennale 2021-2027) e del Next GenerationEU.
Con questo meccanismo la Commissione può di fatto “sospendere” i pagamenti a uno Stato che sta violando i valori fondamentali dell’Unione, previo voto favorevole del Consiglio a maggioranza qualificata.
La stessa maggioranza qualificata era necessaria nel Coreper per approvare l’istituzione di questo regolamento, che poi sarà sottoposto anche al voto, sicuramente favorevole, del Parlamento Europeo. Polonia e Ungheria, quindi, non avevano la possibilità di opporsi a un meccanismo che avrebbe messo i loro governi con le spalle al muro: rispettare l’indipendenza della magistratura e i diritti delle minoranze (come più volte chiesto da Bruxelles a Budapest e Varsavia) oppure perdere gli assegni comunitari.
Il meccanismo è stato approvato. Così, i due Paesi hanno alzato la posta. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán e Jarosław Kaczyński, in teoria vice-presidente ma di fatto leader polacco, hanno dato l’ordine di bloccare l’intero bilancio europeo, che invece necessita dell’unanimità per il via libera.
Una scelta forte, che si ripercuote a cascata sul Next GenerationEU, il piano che deve portare in tempi brevi 750 miliardi di euro nelle casse degli Stati Membri per far fronte alla pandemia e che viene spesso (ma erroneamente) chiamato Recovery Fund. Il capitolo del bilancio riservato alle “risorse proprie”, le nuove tasse che l’UE riscuoterà in maniera diretta senza passare dalle tesorerie nazionali, è condizione necessaria perché la Commissione possa reperire sui mercati il denaro da girare agli Stati. In sostanza: senza accordo complessivo sul Qfp, niente risorse proprie; senza risorse proprie, niente Next GenerationEU.
Per questo motivo l’opposizione di Polonia e Ungheria ha subito sollevato una pioggia di critiche. Diplomatico nei toni, ma fortemente critico nella sostanza è il ministro degli Affari Europei Enzo Amendola, che su Twitter giudica il potere di veto «obsoleto e dannoso per chi lo esercita».
Fra le reazioni più dure ci sono quelle dei partiti italiani al Parlamento Europeo. «Il fastidio di Ungheria e Polonia per il meccanismo sullo Stato di Diritto dimostra che è uno strumento giusto ed efficace. Ma non faremo bloccare la ripresa dell’Europa da parte di Orbán e dei suoi veti ridicoli e fuori dal tempo», dice a Linkiesta Brando Benifei, capo-delegazione del Partito Democratico.
Sulla stessa linea Tiziana Beghin, che parla a nome della delegazione del Movimento 5 Stelle: «È l’ennesimo atto di egoismo di due Paesi che utilizzano l’Unione Europea come un bancomat. Vogliono i soldi dei contribuenti europei, ma non vogliono rispettare i valori comuni e i diritti fondamentali».
Sotto attacco ci sono anche le destre italiane, in particolare Fratelli d’Italia, che è alleato del PiS, il partito di governo polacco nel gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR). «La democrazia che piace ai sovranisti è quella della dittatura della mini-minoranza. Pur di andare a braccetto con Orbán e Kaczyński rinnegano gli interessi del loro Paese», incalza Beghin.
Gli eurodeputati del partito di Giorgia Meloni infatti difendono a spada tratta i due governi dell’Europa orientale, che semplicemente intendono «respingere ogni tentativo di condizionare il bilancio dell’Ue a valutazioni politico-ideologiche sulle scelte di due governi sovrani», come sottolineato in una nota congiunta del capo-delegazione di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza e del co-presidente di ECR Raffaele Fitto.
Un po’ a sorpresa, però, piovono giudizi negativi anche da membri del Partito Popolare Europeo, che pure accoglie fra i suoi membri Fidesz, il partito al potere in Ungheria. «Trovo irresponsabile la scelta di Orbán e Kaczyński – dice a Linkiesta Salvatore De Meo di Forza Italia -. Non è accettabile questo atteggiamento ostruzionista e irresponsabile in un momento drammatico per l’economia dell’Unione Europea».
C’è poi la stoccata del Commissario europeo al bilancio, l’austriaco Johannes Hahn, che in teoria fa parte della stessa famiglia politica di Orbán ma su Twitter non vuole sentire ragioni ideologiche: «Invito gli Stati Membri a prendersi le loro responsabilità e fare i passi necessari per approvare l’intero pacchetto, per aiutare i cittadini europei nella peggiore crisi dalla Seconda Guerra Mondiale».
Quale via d’uscita?
La conseguenza immediata è lo slittamento di un accordo vitale per l’Europa e un’altra sfibrante trattativa all’orizzonte fra i Paesi Membri. Forse la situazione di stallo poteva essere evitata a monte, come fa notare la deputata socialista olandese Kati Piri: Ungheria e Polonia sono entrambe sottoposte alla procedura dell’Articolo 7, la prima su iniziativa del Parlamento Europeo, la seconda della Commissione.
L’esito di questa procedura può essere infatti la perdita temporanea del diritto di voto al Consiglio europeo, cosa che però richiede il parere favorevole di tutti gli altri Stati Membri: Polonia e Ungheria avrebbero potuto farsi scudo a vicenda in un voto che, in ogni caso, il Consiglio non ha mai deciso di affrontare.
Diversi analisti ritengono comunque che il veto sia un bluff, cioè una dimostrazione di forza tipica della prassi negoziale, che punta a strappare migliori condizioni più che a far saltare il banco. Anche perché i due Paesi sono i primi beneficiari netti in assoluto dei fondi europei, cioè quelli che più ricevono dall’UE rispetto a quanto contribuiscono al bilancio comune.
Viene da chiedersi, però, su quale tavolo possa giocarsi questa mossa: il meccanismo per tutelare lo Stato di Diritto è stato ormai approvato e si applicherà dunque a tutti i fondi europei, ritardare l’approvazione di un nuovo budget non salverà Polonia e Ungheria dalle regole stabilite.
«Era prevedibile che facessero muro nell’unico modo che avevano a disposizione. Ma è uno strumento spuntato: i cittadini ungheresi e polacchi hanno bisogno dei fondi del bilancio e i loro governi non possono mantenere il veto all’infinito. Sono gli ultimi fuochi d’artificio dei sovranisti, che da questa partita escono sconfitti», spiega Brando Benifei. Per il capo-delegazione del Pd gli altri Paesi e il Parlamento devono tenere la barra dritta e condurre in porto l’accordo senza concessioni.
Altri analisti di affari europei ipotizzano di scorporare il Recovery and Resilience Facility (RRF, la parte più corposa del Next GenerationEU) e trasformarlo in un trattato intergovernativo, come il Mes. Ma a quel punto i debiti generati dai prestiti sarebbero sulle spalle dei singoli Stati e non dell’UE nel suo complesso, con tutti i rischi che ne conseguono. E soprattutto, l’epocale risposta corale europea alla pandemia verrebbe “annacquata” in un banco di prestiti. Forse sarebbe meglio chiamare il bluff e convincere i due leader illiberali dell’Europa orientale a fare retromarcia.