Durante i primi giorni di pandemia la Dkt International, una no-profit che promuove la prevenzione dell’Hiv in aree a rischio, ha inviato una email ai suoi donatori chiedendo aiuto: la fornitura dei contraccettivi era diminuita a causa dell’emergenza sanitaria e servivano fondi per acquistarli. La prima a rispondere all’appello è stata la Svezia con una donazione di 1,9 milioni di dollari. L’attenzione alla salute sessuale e riproduttiva, nonostante la crisi in corso, è un esempio della politica estera femminista svedese che, dal 2014, mette al centro delle decisioni diplomatiche il supporto alla parità di genere nel mondo. E da quel momento anche altri Paesi stanno cercando di allinearsi al suo modello di feminist foreign policy.
«I diritti delle donne sono diritti umani». Con queste parole Hillary Clinton si rivolse all’assemblea delle Nazioni Unite nel 1995, alla firma della dichiarazione che definiva la parità di genere una priorità globale. Fino ad allora per i governi la questione faceva parte della soft diplomacy, tanto da essere considerata una faccenda separata dal commercio e dalla sicurezza nazionale. Quando nel 2016 iniziarono i negoziati di pace in Colombia, per esempio, gli attivisti utilizzarono la Risoluzione 1325 per obbligare il governo e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) a rendere paritarie le trattative. La Risoluzione è un provvedimento approvato all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2000, che parla esplicitamente dell’impatto della guerra sulle donne e del loro contributo nella risoluzione dei conflitti. E non sono speculazioni, perché uno studio condotto nel 2015 dall’International Peace Institute (Ipi) ha confermato un aumento del 35 per cento della probabilità che la pace duri almeno 15 anni, se le donne sono coinvolte nei processi decisionali.
Il caso della Svezia
Il mondo guarda alla sua politica estera femminista dal 2014 e quattro anni dopo, in un handbook sull’argomento, la Svezia ha raccontato il suo metodo utilizzando alcuni casi studio.
Ha analizzato per esempio la parità di genere nel commercio: dai dati a disposizione è emerso che una camicia di seta femminile le costava sei volte di più di una uguale maschile. La Svezia ha spinto così l’Europa a considerare questi punti ciechi durante i negoziati, diventando inoltre il primo Paese a stanziare il 90 per cento dei fondi destinati agli aiuti a favore di organizzazioni che lavorano al superamento del gender gap. A fronte del 28 per cento degli Stati Uniti, secondo il report dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd). Inoltre ai negoziati di pace per fermare il conflitto in Yemen, aperti in Svezia nel 2018, l’allora ministro degli Esteri Margot Wallström chiese la partecipazione di un gruppo di attiviste yemenite ed esperte, per dimostrare proprio l’importanza del contributo delle donne nella diplomazia.
Un trend in aumento
Negli ultimi anni anche Canada, Francia e Messico hanno adottato misure femministe in politica estera, seppure con approcci differenti. Il Canada per primo ha pubblicato la Feminist International Assistance Policy nel 2017, lanciando in contemporanea un programma da 150 milioni di dollari per assistere le donne nei Paesi in via di sviluppo. In quell’occasione si è impegnato a destinare entro il 2021 quasi il totale dei suoi fondi per gli aiuti alla promozione dell’uguaglianza di genere. Ma non sono mancate le contraddizioni: lo scorso anno il governo canadese si è rifiutato di indicare un mediatore internazionale che investigasse sulla violazione dei diritti umani da parte delle proprie aziende all’estero. A inizio 2020, invece, è stata la volta del Messico che nella sua politica estera femminista ha incluso misure a sostegno dei migranti, della comunità Lgbtq+ e della lotta al cambiamento climatico. Il governo messicano è stato però accusato dagli attivisti, dopo l’omicidio di Ingrid Escamilla, di non adottare gli stessi interventi per contrastare la violenza di genere all’interno del Paese: un’accusa che il presidente Andrés Manuel López Obrador ha respinto e negato.
La posizione della Francia
Nel 2019 la Francia ha investito 120 milioni di euro a favore delle Ong femministe e tiene alta l’attenzione alla Convenzione di Istanbul, affinché la sua adozione diventi universale. Ma se da un lato, nel biennio tra il 2017 e il 2019, il numero di donne nel corpo diplomatico francese è effettivamente aumentato, dall’altro – secondo l’Oecd – l’uguaglianza di genere non risulta ancora tra gli obiettivi di circa l’80 per cento dei progetti di cooperazione lanciati negli ultimi anni. Un report del Centre for feminist foreign policy, un think tank con sede a Berlino, ha inoltre analizzato la posizione della Francia rispetto all’utilizzo del nucleare, visto il suo ruolo nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite insieme a Inghilterra, Stati Uniti, Cina e Russia. L’indagine è stata condotta partendo da una domanda: in che modo un metodo femminista potrebbe influire sulle decisioni dei cosiddetti P5 in materia di politica nucleare?
Femminismo e armi nucleari: il report del Centre for feminist foreign policy
Secondo il report, il femminismo post coloniale aiuta a comprendere come la ritenzione delle armi nucleari da parte della Francia rafforzi gerarchie di potere basate sul patriarcato. L’autrice dello studio, Toni Haastrup, ha quindi indicato strategie a breve e a lungo termine che il governo dovrebbe impiegare per non vanificare il suo lavoro a una reale feminist foreign policy. I suggerimenti vanno dal bloccare l’ammodernamento delle testate nucleari, aiutando economicamente i sopravvissuti alle radiazioni, alla firma e ratifica del Trattato per la messa al bando delle armi nucleari. Toni Haastrup ritiene che un focus femminista per la Francia possa risultare attendibile solo dopo un intervento deciso in ambito nucleare, che le permetterebbe così di superare l’attuale approccio colonialista e militarista.
Questa strategia consentirebbe all’Europa di migliorare anche il dialogo con l’Iran, come riporta lo studio condotto da Carnegie Europe, aprendo la discussione a ulteriori argomenti come ambiente, migrazione e supporto alle locali organizzazioni femminili. E per riuscirci l’Ue ha bisogno del punto di vista delle donne che, dai network territoriali, sanno quello che succede a Teheran e possono indicare soluzioni incisive.
A che punto è l’Europa
A ottobre è stato presentato Shecurity, il primo indice che esamina la partecipazione delle donne in politica, diplomazia, forze armate e business. L’iniziativa è di Hannah Neumann, europarlamentare dei Verdi che, in collaborazione con organizzazioni del settore e think-tanks, ha fatto il punto sulla situazione in Europa vent’anni dopo la Risoluzione 1325. Dopo aver raccolto i dati dagli stati europei e dai membri del G20, sono state realizzate delle previsioni sugli anni trascorsi per arrivare a una parità di genere nei rispettivi settori.Analizzando per esempio il tempo passato per arrivarci nei parlamenti nazionali, il Messico ha impiegato solo un anno, seguito da Spagna (3 anni) e Sud Africa (5 anni). I trend negativi invece riguardano Malta, Cina e Giappone, all’ultimo posto della classifica. Per quanto riguarda le forze militari, invece, Ungheria, Australia e Slovenia si guadagnano il podio, mentre per vedere un equilibrio di genere nella polizia in Repubblica Ceca bisognerà aspettare 531 anni.
Dopo la pubblicazione di Shecurity, il Parlamento europeo ha discusso lo scorso ottobre il report di Hannah Neumann e di Ernest Urtasun, vicepresidente dei Verdi, sulla politica estera femminista: è stato approvato nonostante 112 voti contrari e 94 astenuti. Tra gli altri, Miriam Lexmann e Caroline Nagtegaal non hanno votato a favore. Le eurodeputate supportano l’idea di base della parità ma, rispettivamente, ritengono che il report abbia punti opposti al principio di sussidiarietà e contestano l’utilità delle quote e degli aiuti rosa.
«Solo tre ministri degli Affari esteri sono donne in Europa – sostiene Hannah Neumann – bisogna fare di più, perché la diversità rende migliori le decisioni politiche».