Fino a un paio di mesi fa non sapevo esattamente che cosa fosse un TEDx. Ho accettato di fare un talk all’interno di questa manifestazione internazionale perché amo sperimentare nuove esperienze, ma non sapevo bene a che cosa andavo incontro. Ho iniziato a capirlo quando un coach mi ha aiutato ad esprimere i concetti che avevo in mente, ma soprattutto quando il giorno prima dell’evento ho fatto la prova su quel palco.
In una sala enorme, completamente nera, c’è un palco con un bollo rosso per terra. Occorre fare il proprio intervento lì, con un faro puntato addosso e con 15 minuti a disposizione. Tutto viene registrato, ma c’è anche il pubblico in sala: bisogna parlare a chi hai davanti ma anche pensare che si sta registrando un video che andrà su una piattaforma internazionale, sulla quale sono raccolti tutti i talk fatti nel mondo, da personaggi più disparati e su tutti gli argomenti. L’idea di base del TEDx è di unire le idee che vale la pena diffondere.
Ho pensato molto a che cosa volevo dire in questi 15 minuti, ma solo quando mi sono trovato a tu per tu con questa occasione ho capito quanto grande poteva essere il messaggio, e quanto potesse essere amplificato. Mi sono emozionato e commosso, mentre raccontavo la mia storia: è stata un’esperienza umanamente fortissima.
Ho voluto parlare da cuoco, ma non di cucina: credo che il nostro compito, come esseri umani, sia andare oltre la nostra professione, e usare la notorietà che abbiamo acquisito per lanciare messaggi che siano universali, e possano far pensare le persone.
Il chaos era il tema della conferenza e io ho voluto darne una visione personale. Ho narrato il mio cahos, e i tre momenti nella vita in cui ho capito che tutto intorno a me era disordine, e avevo bisogno di ordinarlo.
La prima volta è successo quando sono tornato da Gibuti, dove ero andato per il servizio civile: un pugno nello stomaco tornare e vedere i supermercati strapieni di cibo, l’abbondanza, dopo aver visto per due anni bambini e adulti che morivano di fame e facevano code interminabili per avere un po’ di cibo. Lo shock di sapere che qui c’è il tutto e là il nulla, è sconcertante, soprattutto per me, che di mestiere nutro le persone.
Il secondo chaos nella mia vita è capitato quando ho ricevuto la telefonata dalla Santa Sede: avrei cucinato per il papa. La mia professione mi ha dato l’occasione di conoscere persone di tutti i generi, ma quello è stato un momento che ricordo. Due mesi di sconvolgimento, attenzione maniacale alla sicurezza, la mia cucina ribaltata. Tutto per dar da mangiare a una sola persona. Impossibile non ripensare a quei bambini, a Gibuti.
Quanto il cibo possa essere al centro del pensiero, e quanto possa essere discriminante, l’ho capito allora.
E il terzo chaos ha alimentato la riflessione. È un caos recente, che mi ha colto in mezzo la lockdown. Per la prima volta nella mia vita mi trovavo senza nulla da fare, con 25 persone che dipendevano da me, ma ai quali non potevo dare lavoro, con il ristorante chiuso. I pensieri di rincorrevano, rischiavo la depressione. Poi, la proposta di cucinare per i medici che lavoravano al centro COVID di Brescia. La possibilità di mettere il mio lavoro al servizio delle persone che stavano cercando di mettere ordine in quel disordine tragico che stavamo tutti vivendo, in una delle zone più colpite dal coronavirus. Ho cucinato, e ho osservato i visi dei medici che entravano in mensa: erano occhi vuoti, stralunati, preoccupati. Mangiavano perché dovevano, all’inizio. Ma pian piano vedevo i tratti distendersi, qualche scambio di chiacchiere leggere, qualche sorriso. E ho capito che la forza di quel pasto era intensa e unica: era la possibilità per loro di tornare per qualche minuto al loro normale, di uscire dal tunnel attraverso un piatto cucinato per loro, che significava condivisione, pausa, nutrimento del corpo e dell’anima.
In un momento di grande fragilità, loro hanno aiutato me a ritrovare il mio senso, e io ho aiutato loro ad avere almeno per qualche minuto nella giornata un po’ di leggerezza.
E ho fatto pace con il cibo e con il mio essere cuoco.
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