Quello di Alberto Genovese – lo schifoso, il mostro, il riccastro tossicodipendente accusato di aver fatto non si sa più quante violenze a non si sa più quante giovani donne – è il caso dell’ingiustizia italiana. Lo affermo con piena convinzione, senza nessun intento polemico, con tutta la gravità necessaria, senza nessun fine provocatorio. Inutile precisare che non è l’unico, né il più grave: ma è quello che denuncia in modo esemplare ciò che non va nella nostra giustizia e nel diffuso modo di intenderne la funzione.
Quello di Genovese è il caso dell’ingiustizia italiana perché dal momento dell’arresto, e senza sosta ormai da mesi, l’opinione pubblica è educata all’idea (anzi alla pratica) che la responsabilità della commissione di un delitto consenta ai giornali e alle televisioni, agli esperti di non si sa che cosa e agli psicologi prime time, ai criminologi da palco e ai tenutari dei talk, di sottoporre a giudizio la vita di una persona e di farla a pezzi indugiando pornograficamente e con insopportabile moralismo sui vizi del criminale: il tutto, con il risibile dettaglio che quella responsabilità è ancora da dimostrare e dovrebbe trovare sede di accertamento nel processo dove c’è quest’altra cosa trascurabile che è il diritto di difesa.
Ma dice: «Ci sono i filmati!». E cioè: non parlarmi di presunzione di innocenza e di diritto al contraddittorio, perché qui ci sono prove a strafottere. Sul presupposto, dunque, che le garanzie di difesa costituiscano una specie di noioso presidio che la società deve tollerare quando ancora non si sa bene se uno è colpevole, ma devono essere accantonate senza tante storie quando, appunto come in questo caso, «ci sono le prove». Ma di nuovo: il principio che un fatto non è provato finché non è accertato in un processo, evidentemente, costituisce un altro trascurabile dettaglio. Com’è un dettaglio il fatto che in un sistema civile la prova di una responsabilità non autorizza a coprire l’imputato di piume e catrame e a offrirlo allo sputo della società indignata.
Ma sopratutto è questo a fare del caso di Alberto Genovese l’esempio dell’ingiustizia italiana: la legittimazione dell’idea – e purtroppo, ancora, della pratica – che la giustizia sia lo strumento per correggere le propensioni aberranti della società immorale e corrotta, con la sentenza chiamata dal popolo a pronunciarsi non sulle ipotizzate responsabilità dell’indagato, ma sulla droga che fa male, sulle dissolutezze della vita festaiola, sul ripristino dei valori di papà e mamma da riaffermarsi nel dispositivo che darà tanti anni di carcere al milionario.
Sarà impopolare ricordarlo, ma il cosiddetto Stato di diritto dovrebbe tutelare anche – forse innanzitutto – i diritti dei colpevoli; e dovrebbe tutelarli anche – forse innanzitutto – dalla società che si pretende migliore pretendendo di giudicarli. Perché c’è caso che una sentenza sia ingiusta anche quando l’imputato la merita: ed è il caso della sentenza già scritta. È il caso della sentenza che, senza processo, è già stata scritta contro Alberto Genovese.