Moda usa e gettaLa dipendenza del fast fashion dai combustibili fossili

Le fibre tessili sintetiche, come il poliestere, sono prodotte a partire da petrolio e gas naturale, risorse non rinnovabili che generano impatti sull’ambiente sia in fase di produzione che di consumo. Un problema da affrontare se vogliamo investire nell’economia circolare

Pixabay

C’è una parte della moda che ha sviluppato una dipendenza dalle fibre sintetiche, ottenute da combustibili fossili, per rifornire i consumatori di capi di abbigliamento usa e getta. Ma l’aumento di vestiti di bassa qualità produce rifiuti difficilmente riciclabili, alimenta l’inquinamento da plastica degli oceani e incentiva la crisi climatica. È questa la conclusione di un report della Changing Markets Foundation: il fast fashion non fa bene all’ambiente né alla nostra salute.

Il poliestere, che rappresenta l’85% delle fibre sintetiche utilizzate nell’abbigliamento, è una fibra resistente, prodotta a basso prezzo e utilizzata in una moltitudine di applicazioni. È anche una delle principali fonti di inquinamento da microfibre. E dal momento che quest’ultime non si degradano naturalmente, la loro dispersione nell’ambiente costituisce un problema a lungo termine.

Nel 2015 il settore del poliestere ha prodotto circa 700 milioni di tonnellate di CO2, paragonabili alle emissioni annuali totali del Messico. In base ai risultati del report, questa cifra dovrebbe raddoppiare entro il 2030.

«A meno che l’industria della moda non esca da questa traiettoria di sfornare miliardi di vestiti ogni anno realizzati con fibre economiche di bassa qualità e interrompa la sua dipendenza dalle fibre sintetiche, non saremo in grado di far fronte al relativo disastro ecologico», ha affermato Urska Trunk della Changing Markets Foundation.

Alcuni marchi realizzano fino a 20 collezioni all’anno e i consumatori acquistano il 60% in più di vestiti rispetto a 15 anni fa, pur indossandoli per la metà del tempo.

Secondo lo studio dell’Agenzia europea per l’ambiente “Plastic in textiles: towards a circular economy for synthetic textiles in Europe il consumo globale di fibre sintetiche è passato da poche migliaia di tonnellate nel 1940 a più di 60 milioni di tonnellate nel 2018. E dalla fine degli anni ‘90, il poliestere è diventata la fibra più comunemente usata nel tessile, superando il cotone.

Il mercato delle fibre tessili sintetiche vede l’Asia come maggiore produttore e l’Europa come più grande importatrice nonostante sia anch’essa produttrice ed esportatrice.

Le fibre sintetiche sono economiche e versatili, consentono la produzione di tessuti a basso costo: è per questo che la fast fashion se ne serve sempre di più. Oltre il 70% delle fibre tessili sintetiche viene trasformato in abbigliamento e tessili per la casa. Il resto viene utilizzato per tessuti tecnici e usi industriali.

Gli impatti ambientali e climatici specifici delle fibre sintetiche più comuni possono essere confrontati con il cotone, per chilogrammo di tessuto tinto. Il nylon, fibra sintetica più utilizzata dopo il poliestere, ha il più alto impatto, per chilogrammo, sul cambiamento climatico e sull’impiego di combustibili fossili mentre per quanto riguarda il consumo di terra, acqua, l’eutrofizzazione e la scarsità di risorse minerali è il cotone ad avere il più alto impatto per chilogrammo. Lo sottolinea un comunicato della Snpa, il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente italiano. «Un confronto simile – si legge – può essere fatto tra poliestere e cotone: si stima che l’intero ciclo di vita di 1 kg di tessuto in poliestere sia responsabile del rilascio di più di 30 kg di anidride carbonica equivalente, mentre il cotone ne rilascia circa 20 kg».

«È importante tenere presente – sottolinea Snpa – che gli impatti dipendono anche dai volumi di produzione delle fibre e dei tessuti. Per esempio, mentre la produzione di poliestere usa meno energia del nylon, il suo tasso di produzione annuale è molto più alto e quindi comporta impatti complessivi maggiori».

Le ricadute ambientali non dipendono solo dalla produzione di tessuti ma anche dal loro trattamento, come nel caso del lavaggio domestico e industriale, dell’asciugatura e stiratura. Queste attività da una parte richiedono molta energia e contribuiscono al cambiamento climatico, dall’altra facilitano un uso più lungo e intenso del prodotto, aumentandone la durata.

Ai problemi sopra menzionati si aggiunge quello delle microplastiche. «C’è ancora molto da studiare e da capire sulla portata e sull’impatto delle microplastiche sulla salute umana e sull’ambiente – si legge nel comunicato – Le microplastiche vengono rilasciate dai tessuti sintetici durante tutto il loro ciclo di vita: in fase di produzione di fibre e tessuti, durante l’uso e il lavaggio fino allo smaltimento, che sia tramite discarica, incenerimento o riciclaggio. Si stima che ogni anno entrino nell’ambiente marino tra le 200mila e le 500mila tonnellate di fibre microplastiche provenienti dai tessuti».

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