Con tutte le cose che accadono nel mondo, forse il pensiero inconsciamente più in ricorrente nella mente di tutti è l’immigrazione, l’immigrato, l’altro. Purtroppo perlopiù in modo negativo. Tuttavia, non c’è Paese al mondo che non abbia avuto cittadini immigrati per un motivo o per l’altro: economico, politico o anche sociale. Eppure sembra che tutti lo dimentichino, soprattutto quando è il proprio turno di accogliere i nuovi arrivati.
Come immigrata due volte, ed entrambe le volte per ragioni sociali – ovvero ragioni familiari personali non violente, come il divorzio e il matrimonio – posso parlare solo da questa prospettiva.
Sto lavorando a un progetto che si occupa di immigrazione politica – immigrazione forzata – legata a un periodo di tempo in cui i termini “immigrazione” o “immigrati” non esistevano, quindi mi sono chiesta che cosa l’immigrato non può lasciarsi alle spalle, perché questo è l’unico interrogativo che connota sia gli immigrati di oggi che quelli di ieri. Per me sono ricordi legati al cibo, facili da trasportare e intrinsecamente intrecciati a una particolare cultura e tradizione, lingua. Il cibo che mangiamo, come la nostra origine, l’etnia o la religione a cui apparteniamo, è una forza di divisione in quanto il cibo ti identifica con una certa cultura, una credenza o un popolo. Fabio Parasecoli nel suo saggio Food, Identity and Cultural Reproduction in Immigrant Communities afferma: «Ingredienti, piatti e pratiche hanno il potenziale per diventare indicatori culturali che identificano e radunano individui e comunità, che spesso mostrano un forte attaccamento alle proprie tradizioni alimentari».
Sebbene possa sembrare ingenuo e semplicistico affermare che il cibo, e non solo dal punto di vista del sostentamento, sia un fattore importante e l’unica cosa di cui le persone hanno bisogno di portare con sé ovunque vadano, i ricordi del cibo sono effettivamente fattori stabilizzanti che aiutano nel radicamento culturale degli immigrati. Coloro che sono costretti o scelgono di allontanarsi dal proprio Paese, cercheranno comunque di ricreare i piatti a cui sono abituati utilizzando ciò che troveranno a loro disposizione, nella speranza di dar corpo anche ai propri ricordi. Questo è un sentimento particolarmente forte per le madri che vogliono che i loro figli portino avanti le tradizioni nella loro nuova casa e non dimentichino mai il passato. È un modo per mantenere le tradizioni familiari e il cibo come cultura. Ma sarà fattibile con le nuove generazioni, quando inizieranno “il viaggio verso una tradizione”, come descritto da Edward Lee in Buttermilk Graffitti: A Chef’s Journey to Discover America’s New Melting Pot Cuisine? Potrebbe essere fattibile anche questo periodo straordinario in cui c’è meno tempo per cucinare o addirittura mangiare seduti attorno a un nuovo tavolo?
È necessario considerare anche l’influenza di un fattore fondamentale come la mancanza di ingredienti tipici nel nuovo ambiente, che comportano una mancanza di interesse da parte dei bambini, soprattutto quando vengono a contatto con stimoli esterni che li inducono ad allontanarsi dalle tradizioni casalinghe, come ad esempio i fast food come McDonalds. Naturalmente questo può verificarsi anche nei membri più anziani della famiglia. Mi guardo e so che non posso dire di essere una cuoca giamaicana dato che ho iniziato a cucinare seriamente giamaicano solo pochi anni fa. In famiglia provavamo a riproporre la nostra cucina tradizionale durante la mia infanzia, ma il meglio che potevamo fare a New York era il pollo al curry, la capra al curry, riso e piselli, pesce escovitch, occasionalmente ackee e pesce salato usando ackee in scatola, piantaggine fritto e alcuni dolci giamaicani, in particolare il Christmas Fruitcake.
E oggi la situazione non è così diversa a casa mia. Ho iniziato cucinando cucina spagnola e attraverso il matrimonio ho intrapreso il percorso vero la cucina italiani, ma solo nel corso degli anni. Nonostante la popolazione multiculturale tipica di New York City, infatti, è difficile trovare buoni ristoranti caraibici, o prodotti tipici, come invece accade per altre tradizioni alimentari, come quella cinese, giapponese, indiana e persino coreana. Quelle sono cucine considerate accettabili, mentre la tradizione gastronomica dei Caraibi non è ancora riconosciuta come una cucina ma semplicemente un mix di sapori. Tutti pensano che sia fusion. Da qui la mia idiosincrasia per il termine, per questo preferisco l’adattamento, poiché è quello che fanno tutti gli immigrati: si adattano alle circostanze, anche culinarie, e a ciò che è a loro disposizione. Cerchiamo di ricreare le nostre tradizioni culinarie con ciò che riusciamo a trovare e fondamentalmente accontentandoci. Edward Lee dice: «Forse parte dell’essere americani sta nel liberare l’ancora che abbiamo nella nostra eredità, così andiamo alla deriva senza direzione nelle acque sconosciute dell’identità».
Come tutti coloro che sono abituati a cucinare molto per gli altri, so che la memoria alimentare passa per tutti e cinque i sensi. Naturalmente al primo posto vi sono la vista, il gusto, il tatto e l’olfatto, ma anche l’udito è coinvolto, poiché il suono prodotto dalle pietanze che vengono riposte nei piatti, sgranocchiate, assaporate, il movimento delle posate, e gli elogi fatti a parole o tramite un piccolo applauso, hanno un proprio ruolo nel libero flusso dei ricordi, stimolano domande o commenti come “Questo mi ricorda qualcosa che mi preparava mia nonna”. Le conversazioni a tavola richiamano alla mente esperienze passate, ricordi di pasti d’infanzia dimenticati da tempo, nostalgia di casa e in alcuni casi di famiglia. Le radici dell’identità sono in questi pasti e, a volte, come nel mio caso, riflettono la duplice identità culturale della mia tavola – che in realtà per me si triplica perché ho vissuto anche a New York City.
La nostra tavola è frequentata anche da tanti italiani e americani, con una spolverata di altre culture qua e là, ed è simile, in questo senso, alla mia cucina: non è fusion, ma sovrapposizione di ingredienti e metodi di preparazione. Invariabilmente, anche se sto cucinando italiano, i miei condimenti tenderanno al giamaicano, mentre forse un metodo di cucina italiano mi attira di più nella preparazione di un piatto giamaicano. Poi ho viaggiato molto e sono naturalmente curiosa verso le altre culture culinarie. Ho vissuto per un po’ in Spagna e ho radici culinarie cinesi molto forti, avendo un bisnonno cinese. Queste culture culinarie sono importanti e influenti per me, quanto lo sono quella giamaicana e quella italiana. Per un immigrato, questi pasti in diaspora sono importanti per creare uno sbocco attraverso cui parlare del passato, per cercare di ricreare il profumo di casa e per ravvivare la memoria personale, oltre che per creare una nuova storia condivisa. Il ricordo di solito si rivolge ai bei tempi e alle storie raccontate intorno alla tavola, mentre si prepara il pasto o lo si mangia, pieni di amore e affetto o almeno del senso di una famiglia e / o di una comunità.
Purtroppo, come accade anche nella mia famiglia, le ricette non vengono sempre scritte, e quindi non vengono ben tramandate di generazione in generazione. Ho provato a rimediare a questa tendenza, ma mi sento come se fossi sempre alla ricerca di quel sapore o di quell’aroma errante dalle cucine di mia nonna o delle sue numerose sorelle, tutte cuoche favolose. Ovviamente, poi, cucinavano in Giamaica, e per quanto io possa provare a pregare gli dei della cucina, i miei piatti non avranno mai un sapore così. Ciò è in parte dovuto al fatto che i ricordi sono personali e tendono a migliorare la realtà del passato (soprattutto i ricordi positivi) e in ogni caso non c’è modo di misurarlo.
Inoltre c’è la questione dell’attuale produzione alimentare. Tutto quello che posso acquistare a New York sarà mille volte più elaborato di qualsiasi cosa mia nonna avrebbe avuto nella sua cucina. C’era l’abitudine di strappare avocado o banane o altri frutti dall’albero del giardino; correre a casa da scuola, gettando a terra la cartella e arrampicarsi sull’albero di mango ancora con la divisa addosso, e restare per quelle che sembravano ore a mangiare mango (non lavato tra l’altro) con tua sorella e ridacchiare per tutto il pomeriggio finché non ti beccavano. Le esperienze passate possono colorare tutto e questo include i sapori, i profumi e le sensazioni della condivisione del cibo. Non mi emoziono così tanto all’idea di mangiare pesce adesso come quando da piccola e io e mia sorella attendevamo l’arrivo del pescivendolo che pedalava sulla sua bicicletta, con la piccola scatola di legno verde piena di ghiaccio e quello che sembrava un tesoro di pesci, simile a Mary Poppins che tira fuori gli oggetti dalla sua borsa senza fondo. Oppure l’esperienza di osservare e inseguire i polli (sempre ruspanti) nella fattoria dei nonni e poi vederli catturati, uccisi, spennati e infine presentati su un piatto a tavola in una sorta di riferimento di Alice B. Toklas.
Quindi la domanda per la maggior parte dei genitori è: come trasmettiamo ai nostri figli la nostra eredità alimentare? In parte la risposta a questa confusione si trova in una delle deliziose memorie della scrittrice americana Diana Abu-Jaber in Life Without a Recipe, che narra del conflitto costante tra sua nonna tedesca e suo padre giordano, in una sovrapposizione di cibo e famiglia. Vediamo oggi i figli e i nipoti degli immigrati che iniziano a riflettere sulla loro eredità e vedono il cibo come un modo per connettersi ai loro nonni, per ritrovare se stessi attraverso la loro tradizione culinaria.
Io stessa con il passare degli anni ho sentito il bisogno pressante di assaggiare alcuni piatti del mio Paese e anche di provare quelli che da bambina non avrei voluto nemmeno prendere in considerazione. Sono felice che i miei figli mi chiamino e mi chiedano ricette e mi inviino le foto dei pasti che hanno preparato. Mi trovo a cercare chef e food blogger dei Caraibi che vivono sia lì che all’estero. Ovviamente non sono sola, perché ce ne sono tanti e cerco di ricordare i nomi di piatti e frutta e verdura che non vedo da decenni. Mando le immagini di questi prodotti ai miei figli e spero che un giorno torneremo nella stagione giusta per assaggiarli.
Forse se tutti noi ci sedessimo a tavola e ci rendessimo conto che siamo più simili di quanto pensiamo quando riflettiamo sull’importanza del cibo, il mondo sarebbe migliore. Abbiamo enormi differenze culturali, ma abbiamo anche somiglianze riguardo agli ingredienti e ai piatti. Dobbiamo solo cercarle. Questo credo sia l’obiettivo del libro You and I Eat the Same: On the Countless Ways Food and Cooking Connect Us to One Another, una raccolta di saggi e pensieri a cura di Chris Ying. Nella mia casa il cibo è una parte fondamentale del mio rapporto con la mia famiglia e gli amici.
Parlo a mia madre ogni giorno del cibo e i miei migliori amici sono tutte persone con cui condividerei volentieri un pasto. Tuttavia devono essere pronti ad accogliere la mia cucina perché non accetto compromessi su ciò che cucino. La cucina giamaicana rappresenta molte culture tra quella cui africana, cinese, indiana, spagnola, arawak, inglese e altre ancora. Tutti quelli che siedono intorno a una tavola dovrebbero essere pronti a condividere i loro pensieri, ma soprattutto dovrebbero essere curiosi del reciproco patrimonio culinario. È forse il modo più perspicace per capire chi ti circonda.
Quindi prenditi il tempo per parlare con gli anziani della tua famiglia, scopri la tua storia familiare e cosa veniva cucinato in cucina; i piatti preferiti della famiglia, le storie dietro ogni ricetta; dove ha avuto origine, paese o regione, se il significato sia religioso o culturale, o solo un classico di famiglia. E per favore, condividi tutto con i tuoi figli. Oggi la capacità di accettare chi sei può essere migliorata dall’accettazione del tuo passato. La cultura della tua famiglia può aiutarti a provare un senso di orgoglio e gioia che puoi poi trasmettere al tuo vicino. Condividere la tua storia alimentare è un ottimo modo per entrare in contatto con gli altri e mostrare loro che dove ci sono differenze, ci sono anche somiglianze.