Fateci caso: è raro che nelle loro interviste i dirigenti del Partito democratico facciano mai riferimento al governo Draghi. O all’agenda del premier. Eppure dall’insediamento del nuovo esecutivo è ormai trascorso un mese e mezzo, dunque un lasso di tempo sufficiente per metabolizzare la disfatta della linea «o Conte o urne», tanto più che il segretario che incarnava quello slogan è scomparso dai radar del dibattito politico nazionale.
Nel frattempo Mario Draghi si è progressivamente imposto come il leader della Nazione sulla base di una piattaforma progressiva e moderna: quella, per l’appunto, che dovrebbe costituire la stella polare per un qualsiasi partito di progresso.
Invece si conferma quanto avevamo scritto nei giorni successivi al giuramento, cioè che il Partito democratico considera quello di Draghi un “governo amico” buono per fronteggiare l’emergenza ma non per incarnare una compiuta prospettiva politica. Come si è ripetuto – e si ripete tuttora – dalle parti del Nazareno, adesso c’è Draghi ma poi tornerà il tempo della politica (anzi, dal tono si intuisce la maiuscola: “Politica”) , cioè il tempo “nostro”, dei partiti. Alla vecchia maniera, come sempre.
Il punto critico di questo modo di ragionare sta però nell’illusione ottica di vedere con una certa sicumera il governo Draghi come di passaggio – non diciamo come un accidente della Storia – mentre pare che la figura e le idee del presidente del Consiglio possano trasmutare in qualcosa di organico, di “solido”: di politico in senso stretto.
Ha notato Claudio Petruccioli: «In queste ultime settimane ha preso avvio una riconversione di cui non si possono prevedere gli esiti ma tutt’altro che episodica e, con ogni probabilità, assai profonda: sia sul terreno governativo che su quello politico, riguardante i soggetti della politica, i partiti; e anche sull’assetto istituzionale».
Non ci troviamo insomma – giova ripetere una cosa ovvia – né di fronte al governo Dini e nemmeno a quelli di Ciampi e Monti, che avevano tutti la data di scadenza inscritta nel loro dna, tutti messi su dai partiti in attesa della riappropriazione del governo.
Qui invece siamo di fronte a uno statista cui la vicenda dell’inaudita crisi sanitaria, economica, sociale, morale del Paese ha assegnato un ruolo davvero storico, quello di ricostruire il Paese come dopo una guerra. Ecco perché il draghismo, che non è un fatto ideologico ma nemmeno mera tecnica economico-istituzionale ma appunto un possibile grande fatto politico, non può essere per così dire lasciato solo nelle mani di Draghi.
Ed è anche strano che neppure i riformisti non Partito democratico non abbiano appieno fatto propria quella che in gergo chiamiamo agenda Draghi. Può darsi che per non creare problemi al premier, dando l’impressione di strumentalizzarlo, i dirigenti riformisti evitino di far riferimento preciso al presidente del Consiglio; eppure il progetto non può che essere quello così ben delineato nel discorso programmatico davanti alle Camere per la fiducia.
Carlo Calenda, uno dei protagonisti principali di quest’area, elaborando un “Recovery plan” del suo partito, si è mosso con metodo giusto e sintonia programmatica, e potrebbe essere una prova generale da ripetere. Ma non si sa bene di cosa stiano discutendo Italia viva, i socialisti, Più Europa, se non di questioni interne, cose minori.
Ecco perché queste forze dovrebbero discutere innanzi tutto del loro rapporto con il draghismo invece di guardare l’ombelico proprio e di quello della forza politica accanto, e nel segno del nuovo corso di Mario Draghi sviluppare su questi contenuti politici una seria e positiva sfida al Partito democratico. Il quale continua a oscillare come fa la trottola prima di fermarsi su un fianco sul rapporto con il Movimento Cinque Stelle, cioè l’altra faccia dell’offerta politica che i dem hanno dinanzi.
Bisogna cioè chiedersi se, in una prospettiva che non sia quella dell’emergenza della pandemia ma quella della ricostruzione del Paese (la differenza che può esserci fra un governo Badoglio e uno politico), il Movimento cinque stelle sia compatibile con il “fattore D”.
Un conto è un cartello elettorale, un altro è la scelta di una precisa linea politica. E Mario Draghi e Paola Taverna sono come il giorno e la notte. Naturalmente bisogna attendere la mitica evoluzione del grillismo sotto il segno di Giuseppe Conte e capire dove porterà, se verso una seria formazione verde e progressista o verso un contenitore di qualunquismi non urlati ma inevitabilmente generici e molto adattabili al potere per il potere (guardiamo a cosa sta succedendo sulla questione del doppio mandato).
Senza demonizzazioni: ma se così fosse – e i segni ci sono tutti, a partire dalla inquietante figura di un uomo come Conte che si è alleato prima con Salvini e poi con Zingaretti senza battere ciglio – non si vede come il destino di un partito come il Partito democratico possa essere l’abbraccio con un Movimento cinque stelle seppure in doppiopetto e con la pochette.
Alessandro Maran, ieri sul Foglio, ha ribadito ciò che aveva detto nell’incontro dei riformisti promosso da Linkiesta e Base Italia del 21 marzo, e cioè che c’è bisogno di un centro come «luogo dove proporre soluzioni radicali ma realistiche» che sia la vera alternativa al bipopulismo di una sinistra grillizzata e una destra sovranista, alternativa che, nello schema binario di Letta, sembrerebbe ossificata.
A leggere l’intervista di Francesco Boccia alla Stampa c’è da questo punto di vista da temere il peggio. Boccia, forse la figura più vicina a Enrico Letta, legge la sfida italiana come un doppio di tennis: Letta-Conte contro Salvini-Meloni.
E ormai pensa al popolo dem e quello grillino come una cosa sola, o almeno come un’amalgama riuscito – tanto da fare le primarie insieme – e dando dunque per acquisita la collocazione dei cinquestelle nel centrosinistra, senza peraltro che Di Maio o altri si siano definiti tali, con dunque uno stravolgimento della nozione stessa di sinistra, o di centrosinistra, che finirebbe per accogliere nel suo seno tutto l’armamentario populista del Movimento.
Mentre si attendono prove di esistenza in vita dei riformisti del Partito democratico che non siano quelle legate alle questioni di assetti interni, il problema dei riformisti non-Partito democratico comincia a essere il tempo. Un personaggio come Marco Bentivogli, figura un po’ di cerniera, morde il freno chiedendosi in sostanza: se non ora quando ci muoviamo?
Ed è auspicabile che rivolga la domanda all’incontro di venerdì 2 organizzato anch’esso da Linkiesta a cui parteciperanno voci autorevoli del riformismo: oltre Bentivogli ci saranno Emma Bonino, Carlo Calenda, Ivan Scalfarotto, Irene Tinagli e Giorgio Gori. È ora di risposte, il tempo non è infinito.