Ininfluenza strategicaLo zoppicante ritorno di Conte e la strategia del ragno di Letta

Oggi non verrà siglato alcun patto storico perché il segretario del Partito democratico non ha interesse a tagliare fuori i riformisti in cambio dei grillini. Il suo progetto vuole essere inclusivo, a differenza di Zingaretti che si era legato mani e piedi a una alleanza strategica col Movimento Cinque stelle

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Giuseppe missing Conte rientra oggi sulla scena accalappiato dalla ragnatela di Enrico Letta. I due si vedono oggi, ed è una tappa importante non solo per la costruzione della strategia del ragno del segretario del Partito democratico ma anche per capire i progetti dell’avvocato invocato da quel Movimento 5 stelle anch’esso sparito dai radar. Da una parte dunque uno dei due volti della nuova stagione (l’altro è ovviamente Mario Draghi), dall’altra lo sconfitto della vecchia stagione, l’ultimo giapponese della giungla: ma c’è da dire che i due si stimano e che il faccia a faccia è circondato da discrete vibrazioni, non foss’altro per il fatto che ognuno dei due cerca alleati disperatamente.

La tela di Letta necessita di un qualche filamento che conduca a Conte e al suo M5s – qualunque cosa vorrà dire in futuro – perché nella logica bipolarista e maggioritaria del segretario del Pd la coalizione anti-destra se vorrà prevalere nei collegi dovrà essere la più larga possibile, e dunque bisognerà evitare – ha detto ieri – che la coalizione sia una Torre di Babele, pena la sicura sconfitta nel 2023. Dunque serve anche un M5s magari ripulito dalle sue posture antipolitiche e riverniciato semmai di verde, un colore che nello schieramento avverso alla destra manca da sempre, ma resta da capire – e non è poco – se Letta sia disposto ad aprire le porte al M5s in un nuovo centrosinistra organico, se cioè nell’epoca lettiana il partito dell’avvocato andrà considerato un soggetto a pieno titolo di una nuova coalizione oppure se sarà più naturale fissarne una connotazione autonoma dai due poli ma alleata con il centrosinistra.

È un problema strategico che non è solo nelle mani di Letta ma anche e soprattutto in quelle di Conte, e anche se oggi non verrà certo siglato chissà quale patto storico, certamente uno scambio su cose concrete tipo la partita delle comunali troverà spazio dato che il leader dem ha congelato la situazione per rendersi conto (soprattutto a Roma) se sia possibile una qualche forma di accordo.

Quella di Letta è un’impostazione del tutto diversa da quella di Zingaretti che presupponeva un’alleanza strategica con il M5s (e LeU, nel frattempo rottasi in due pezzi), un’idea frontista basata tra l’altro su una conventio ad excludendum, quella dei riformisti della zona centrale del Parlamento, da Renzi a Calenda agli altri. Letta che ha già visto Calenda e Speranza e vedrà Renzi in un vis-à-vis interessantissimo per molti motivi, non ha nessun interesse a tagliare fuori nessuno proprio perché il suo progetto vuole essere inclusivo, a differenza di quello del segretario precedente dimessosi con rabbia.

Già, la tela di Enrico si dirama in tutte le direzioni. Il numero uno del Nazareno deve guardarsi da adulazioni troppo facili ma è indubitabile che in pochi giorni sia riuscito a mettere su un nuovo gruppo dirigente molto qualificato al posto del circolo romano che si era piazzato al Nazareno; ha fatto e farà incontri politici in tutta la sua metà campo; ha posto qualche bandiera identitaria indisponendo con lo ius soli (era l’obiettivo) Matteo Salvini; ha visto Maurizio Landini per recuperare il discorso sul mondo del lavoro; sta vincendo la partita dei capigruppo (saranno due donne, probabilmente Debora Serracchiani al posto di Graziano Delrio e Simona Malpezzi o Valeria Fedeli al posto di Andrea Marcucci). Restyling interno e nuova linea politica per ora stanno marciando ma diciamo che il difficile deve ancora venire: sforzo immane, quello di rimettere al centro un Pd sfiatato da due anni sbagliati.

Ma Conte? Che fine ha fatto? E diremmo anche: ma il M5s che fine ha fatto? Sono due sparizioni dai radar non casualmente contemporanee. Probabilmente perché le regole d’ingaggio dell’avvocato non sono ancora pienamente definite, sta di fatto che la leadership del Movimento è vacante da mesi – e sospendiamo per carità di patria il giudizio sulla reggenza di Vito Crimi – né si ha notizia di una qualunque iniziativa dei ministri grillini, oscurati oltre che dalla loro assenza di idee dalla leadership di Mario Draghi che un po’ tutti sta mettendo in ombra.

Anche Conte ha bisogno del Pd. Per recuperare un minimo di protagonismo il M5s ha assoluto bisogno di tornare competitivo anche a livello locale, ed è per questo che Roberto Fico si sta muovendo forte per la carica di sindaco a Napoli mentre un risultato insperato sarebbe conquistare la Regione Lazio nel caso in cui davvero Zingaretti dovesse correre a Roma imponendo così nuove elezioni regionali mettendo in pista la grillina Roberta Lombardi.

L’unica notizia degna di nota di questi giorni è l’annunciata battaglia politica e legale dell’avvocato ex del popolo contro Davide Casaleggio e la piattaforma Rousseau, unico e incontrollabile canale della dadaista democrazia interna del Movimento, vero e proprio instrumentum regni di Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Casaleggio padre e figlio. Roba di un’altra epoca. Che non si attaglia al futuribile nuovo partito di Giuseppe Conte, in una sua second life politica per ora scritta sull’acqua.

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