Faranno certamente discutere, nei prossimi giorni, le motivazioni della sentenza sui vertici del Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex Presidente e AD dell’Istituto senese.
Lo scorso ottobre il Tribunale di Milano aveva sancito per entrambi una condanna di primo grado a sei anni di reclusione e al pagamento di una multa di 2,5 milioni di euro.
Una sentenza che era stata accolta con stupore anche dalla stessa Procura di Milano, che si era espressa in favore della loro assoluzione, e dai regolatori Consob e Banca d’Italia che in tutte le fasi del risanamento del Mps hanno seguito e guidato le scelte del top management della banca.
Ma come si è arrivati a questo punto e quali aspetti restano ancora da chiarire?
Le vicende al centro dell’inchiesta risalgono al triennio 2012-2015: un periodo di grande difficoltà per Monte dei Paschi, così come per l’intero Paese, alla luce dalla crisi economica e dalle problematiche a essa connesse.
Proprio in quel frangente entrò in gioco uno dei soggetti oggi al centro dell’inchiesta, Alessandro Profumo: nominato Presidente nella fase più critica, fu chiamato a rispondere alla sfida di risanare i conti economici e salvare l’Istituto. La nuova presidenza avviò un’operazione strutturata su più fronti: taglio dei costi, rinnovamento manageriale, raccolta di capitale dal mercato e riduzione del profilo di rischio.
E proprio a quest’ultimo punto si lega uno dei filoni principali dell’inchiesta, che ancora oggi genera riflessioni e dubbi tra gli addetti ai lavori e non solo.
Tra le misure attuate da Profumo e Viola ci furono, infatti, la pulizia del portafoglio crediti e la chiusura anticipata delle operazioni Alexandria e Santorini: si tratta, come ormai noto, di contratti derivati che alcuni ex dirigenti Mps avrebbero utilizzato per coprire perdite di bilancio, spostandole sugli esercizi futuri. Operazioni fino ad allora rimaste nell’ombra, portate a galla proprio grazie al lavoro dei nuovi vertici.
Gli elementi a sostegno della tesi dell’accusa sono la scelta di adottare, per le due operazioni, il criterio di contabilizzazione “a saldi aperti”. Una modalità di contabilizzazione che in quel momento non era in alcun modo in discussione e che, anzi, era stata adottata dall’Istituto senese a seguito di un confronto con le Autorità di vigilanza e sulla base di un documento congiunto di Banca d’Italia, Ivass e Consob.
Proprio quest’ultima, in merito al coinvolgimento di Profumo e Viola, si è da sempre espressa escludendone ogni responsabilità di sorta nelle difformità contabili: un parere mai mutato neanche con l’emergere degli elementi messi in luce in seguito dall’inchiesta penale.
In particolare, riguardo all’operazione “Alexandria”, la Consob ha affermato che sulla base delle informazioni disponibili in tutto il 2014 non era stato possibile rilevare elementi certi che potessero far ritenere censurabile la contabilizzazione “a saldi aperti” adottata da Mps.
Una posizione confermata dal fatto che la stessa Autorità di Vigilanza non ha mai avviato nei confronti di Profumo e Viola alcun procedimento sanzionatorio, tenendo ben presente la distinzione tra vecchio e nuovo management dell’Istituto.
Parliamo degli ex dirigenti Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gian Luca Baldassarri, condannati invece dal Tribunale di Milano proprio per la mala gestione dei contratti Alexandria e Santorini.
E se il parere di autorevoli regolatori come Consob e Banca d’Italia è sempre stato in linea con le azioni di Profumo e Viola, resta da chiarire in che modo i due possano ritrovarsi sul banco degli imputati in una vicenda di cui si discute da tempo, sui media così come tra gli addetti ai lavori.
Un’indagine durata anni, al termine della quale i PM titolari del fascicolo, Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici, hanno chiesto per entrambi prima l’archiviazione e poi l’assoluzione perché il fatto non sussiste.